mercoledì 3 dicembre 2014

Nudo alla meta

A chi non è mai successo di dire "non ho nulla da mettermi" in un momento topico della propria vita?! Quello che aspettavi da sempre, quello che ti avrebbe permesso di cambiare  tutto, di svoltare una volta per tutte - e invece, ops, l'armadio sceglie proprio quel momento per tradirti, annunciandoti beffardo che, no, non ha proprio nulla di buono in serbo per te.
Qualcosa di simile deve essere accaduto a Matteo Salvini, meglio noto come Matteo 2 la brutta copia, chè di questi tempi tra fake e cloni è un'impresa distinguersi, come ben sa il povero Cuperlo, ormai costretto ad una crisi di identità irreversibile ogni volta che si chiede come abbia potuto scrivere Tweet tanto ironici e ficcanti a sua insaputa. E infatti chi spopola su Twitter è un suo strepitoso imitatore.
Dunque, il Salvini ottiene la possibilità che aspettava da una vita, ovvero una copertina nazionalpopolare su Oggi, per conquistare le nonne, le mamme, le famiglie tradizionali, in una parola quegli "italiani veri" che sono da sempre i destinatari del suo verbo ed anche gli oggetti - spesso inconsapevoli e magari pure recalcitranti - del suo desiderio elettorale. Ma siccome la malasorte è sempre in agguato, questa meravigliosa chance gli viene offerta nella settimana sbagliata, la classica peggior settimana della sua vita, quella in cui si verifica la tempesta perfetta nota anche come "nemesi del guardaroba leghista". Riassumendo:
- Salvini ha bruciato tutte le camicie bianche dopo aver visto la foto dei leader del Pse alla festa dell'Unità, per marcare la propria diversità antropologica da costoro. Posto che: 1- la differenza fra lui e quel gran figo di Pedro Sanchez era non solo visibile ad occhio nudo ma stabilita con lo stesso risultato della partita Roma-Bayern Monaco, che è andata ad un pelo dall'essere sospesa per manifesta inferiorità di una delle squadre in campo. 2- Maremma Padana, non ho mai avuto una camicia bianca, solo verdi. 
- le mitiche felpe da nerd, indossate nelle varie apparizioni televisive e nei comizi elettorali, erano tutte inutilizzabili, ne serviva una con scritto "Italia" ed era l'unica che il nostro eroe mai avrebbe pensato di indossare, lui che a Bruxelles volta regolarmente le spalle quando suonano l'inno di Mameli non aveva minimamente considerato lo spirito patriottico. Restava solo un maglioncino striminzito dopo l'ultimo bagno nelle acque del Dio Po, ma era verde stinto e in foto non sarebbe venuto bene.
- il doppiopetto della festa dei diciotto anni era purtroppo andato smarrito in Corea del Nord, intanto che il nostro era intento a lodare la pulizia delle strade, tipico fiore all'occhiello dei dittatori, che son gli stessi che poi ti sequestrano il bagaglio per eccesso di zelo mastrolindico, e ti lasciano nudo come un verme quando hai bisogno di uno straccio di vestito decente.
- il colbacco di pelo regalo dell'amico Putin, sincero liberale e dunque generoso nei doni, specie a coloro che si impegnano ad affossare l'Europa dicendosi di destra, è stato scartato perchè le sue eccessive dimensioni a) non entravano nella copertina di Oggi, b) dotavano il nostro eroe di una eccessiva macrocefalia che poteva indurre ottimistiche quanto illusorie aspettative sulle grandi idee custodite in cotanto involucro.
- la camicia giallina indossata per l'uscita in discoteca con Marine Le Pen era già stata vista e peraltro già opzionata in esclusiva mondiale per un servizio sul prossimo numero di Vogue, titolo: Cara, stasera usciamo dall'euro. Dunque, era inutilizzabile.
Non restava che la cravatta verde, regalo di Umberto Bossi ai bei tempi di "Roma ladrona, aspettaci che partecipiamo anche noi". Da qui, il colpo di genio: Salvini nudo con cravatta verde. Sotto la cravatta, nulla. Cosa credevate?! 


ChiBo 


lunedì 24 novembre 2014

La guerra dei voti (degli altri)

Ogni tornata elettorale scatena da sempre una ridda di commenti, di solito oscillanti tra il più banale luogo comune e la vecchia gara a coprirsi con la coperta troppo corta, che costituiscono, con alcune rare eccezioni, la parte peggiore, per non dire la più estenuante, dell'immediato dopo voto. Questa volta, però, siamo andati davvero oltre, dando il via ad un giro di schiaffi che, nella dichiarata volontà di coprire i dati di fatto e di colpire, invece, un unico bersaglio - ovvero chi governa - ha sollevato alte cortine fumogene che sarà bene tentare di diradare, giusto per non perdere l'abitudine a ragionare in favore di quella, pessima, della sparata becera tanto utile per i titoli dei giornali quanto inutile ai fini di una analisi oggettiva. Di seguito, gli argomenti più gettonati:
L'astensionismo in Emilia Romagna è uno schiaffo al Pd di Renzi: intanto, l'astensionismo ha colpito tutti i partiti indistintamente, e su questa base si deve ragionare, partendo da due considerazioni di fondo: il primo fortissimo segnale venne due anni orsono dalle elezioni regionali in Sicilia, con oltre il 50% degli astenuti, ed ogni tornata elettorale ha confermato questo trend negativo, che in parte è figlio della mala politica degli ultimi decenni che ci ha trascinati nel baratro, con l'aggravante della crisi economica persistente, ed in parte si lega alla seconda considerazione da fare, ovvero che il voto identitario che portava la quasi totalità degli elettori italiani alle urne è definitivamente tramontato, come abbiamo ripetutamente constatato negli ultimi anni. La mobilità dei flussi elettorali è ormai una realtà anche nel nostro paese, sebbene molto recente rispetto ad altri, e di questo fenomeno fa parte anche l'astensione, cui non eravamo abituati. Ora, in una regione come l'Emilia Romagna, dove il voto identitario era nel DNA stesso dei cittadini, è innegabile che lo scossone fortissimo dovuto allo scandalo dei rimborsi elettorali che ha colpito tutti, Pd compreso, le dimissioni di Errani indagato, la presa che ha ancora oggi la quasi sovrapposizione con il sindacato e la fase di passaggio dal "tortello magico" a trazione emiliana al nuovo corso renziano, si siano sommati dando vita ad un crollo dei votanti. Che però non hanno, ad esempio, scelto Sel, ormai ridotta a percentuali al limite del rilevamento, dunque la cosiddetta "vera sinistra", e neanche si sono buttati sulla antipolitica grillina o sulla sua versione destrorsa incarnata da Salvini. Semplicemente, hanno saltato un giro, e su questo, semmai, deve riflettere il Pd, non solo il suo Segretario ma soprattutto coloro che, dal giorno della sue elezione, lavorano alacremente e quotidianamente per scalzarlo: in democrazia, vince chi porta gli elettori a votare, ovvero li convince con le proprie idee ed i propri programmi, e se la cosiddetta "vera sinistra" non ci riesce, anzi, si sta rapidamente estinguendo, è chiaro che il suo appeal non ha nessuna presa sull'elettorato. Quindi, semmai, il neo eletto Bonaccini, e con lui tutto il Pd, da oggi deve lavorare per recuperare credibilità sotto il profilo della trasparenza, prima di tutto, e poi per offrire al proprio elettorato validi motivi per tornare a votare con convinzione il proprio partito, sulla base di una buona amministrazione e di una decisa chiusura con pratiche di utilizzo di denaro pubblico che non solo costituiscono reato ma indignano i cittadini oltre misura e li allontanano sempre più dalla politica.
La vittoria è delegittimata: i cultori di questo mantra, ripetuto come una cantilena rassicurante per i perdenti di mestiere che possono solo gioire delle difficoltà altrui, con l'aggravante di aver però contribuito a crearle a danno della propria parte politica, dovrebbero coerentemente sostenere, sulla base dello stesso strampalato principio, che tutti i Presidenti degli Stati Uniti, tanto per fare l'esempio più eclatante anche se non l'unico, siano stati degli usurpatori, vista la bassa affluenza che da sempre caratterizza le elezioni presidenziali americane, dove pure la posta in gioco è altissima. In realtà, i poverini dovrebbero smettere di pensare che la vittoria sia solo plebiscitaria, come ai tempi del pensiero unico e dello schieramento ideologico a loro tanto cari tuttora, e comprendere una volta per tutte che in democrazia vince chi prende più voti, punto. La legittimazione è data dall'atto stesso della convocazione elettorale e dal suo regolare e libero svolgimento, e gli astenuti, paradossalmente, affidano una delega in bianco al vincitore, avendo scelto di non votare, mica di fare la rivoluzione, altrimenti avrebbero espresso la loro disapprovazione in ben altri modi. Fondando un nuovo partito, ad esempio. Cosa che non è avvenuta.
Il trionfo di Salvini: posto che, rispetto alle precedenti elezioni regionali, la Lega ha perso circa cinquantamila voti, vista la flessione dei votanti che ha colpito tutti i partiti, il dato generale non lo premia, mentre è chiaro che il senso vero della vittoria sta nell'aver doppiato Forza Italia e soprattutto nell'essersi ripreso i voti che negli anni passati la Lega aveva ceduto a Grillo. Il che non stupisce affatto, visto che i due leaders sostengono le stesse cose, sparano le stesse scempiaggini, senza peraltro mai sottostare all'obbligo di fornirci debite e puntuali spiegazioni; siamo sempre in fervente attesa di sapere come, a quale prezzo e pagato come e da chi si dovrebbe uscire dall'euro, secondo questi poderosi statisti della chiacchiera al bar, ad esempio, ma capiamo che più di tanto non si possa pretendere da loro. Dunque, il travaso di voti da MS5 a Lega è del tutto naturale, la demagogia populista è la stessa, diverso è il quadro se lo si rapporta ad una cornice nazionale, perchè se è vero che la sbornia grillina è passata, ed è stato sufficiente un anno e mezzo alla prova del Parlamento per scoprire il bluff, è vero anche che inizialmente aveva fatto presa un po' in tutta Italia, obbiettivo che invece si configura molto più difficile da raggiungere per Salvini, vista tutta la paccottiglia nordista da lui sempre propagandata. E anche se oggi si fa furbo e non parla più di Padania, ciò non basta a garantirgli il voto del Sud. Neanche recuperando quel che resta dei grillini, e spostandosi definitivamente a destra, dove gli elettori di Forza Italia non lo seguirebbero, e certo i numeri risibili raccolti dalla Meloni anche a questo giro non autorizzano ottimistiche previsioni.
Il Patto del Nazareno ha resuscitato Berlusconi: è da gennaio che ridiamo di questa colossale scempiaggine che oggi, numeri alla mano, evidenzia tutta la pochezza di chi l'ha partorita. Il prossimo che ancora si azzarderà a pronunciarla o a scriverla, insieme all'altro imperdibile must "Renzi è il figlio di Berlusconi", vincerà con pieno merito un emozionante giro al campo Rom con Salvini, che è l'unico vero figlio che il caro leader ci ha lasciato grazie a vent'anni di assoluta incapacità nella costruzione di una classe dirigente degna di questo nome. E forse, visti i risultati, neanche Silvio l'highlander oggi si augurerebbe di resuscitare politicamente un'altra volta. L'elmo con le corna, tanto caro ai raduni leghisti alla sorgente del Po, lo spettinerebbe rovinosamente.

ChiBo

lunedì 17 novembre 2014

A carte scoperte

Il gioco degli equivoci che ha caratterizzato tutta la Seconda Repubblica, impostata su un bipolarismo fasullo che ha aggravato la paralisi decisionale della nostra politica malata, è arrivato alla fase finale, un po' per la propria debolezza di fondo che non poteva reggere oltre l'esasperante rito della concertazione come eterno rinvio della ricerca di soluzioni, e molto per l'urto inevitabile e pressante con la reale condizione del paese, bloccato in tutto e non più in condizioni di sopportare ancora lo stallo asfittico  cui si erano inchiodate da sole le istituzioni, i partiti, i governi.
Oggi, sia pure ancora con molte incognite dovute soprattutto al sopravvivere di vecchie e malsane abitudini politiche, ci stiamo faticosamente avviando là dove, se avessimo avuto coraggio, visione del futuro e senso di responsabilità, avremmo dovuto doverosamente collocarci dopo Tangentopoli e Mani Pulite, se fossimo stati pronti a mettere da parte un sistema malato e corrotto che infine era imploso, mostrando il suo vero volto, i suoi evidenti limiti e le sue tossiche attitudini passatiste e conservatrici consolidate da un metodo concertativo che, nel fittizio gioco delle parti, vedeva in realtà tutti d'accordo in difesa delle proprie rendite di posizione. Ma pronti non eravamo, ed abbiamo pagato il prezzo altissimo di ulteriori vent'anni perduti che oggi ci schiacciano sotto un ritardo abissale e difficile da colmare in poco tempo, ma almeno un passo avanti lo abbiamo fatto, prendendo atto degli errori del passato ed acquisendo la consapevolezza che questo paese va risollevato partendo da un fondamentale obiettivo che è quello della chiarezza. Prima di tutto verso gli elettori.
Le coalizioni acchiappavoti che hanno caratterizzato la Seconda Repubblica, ammucchiate di sigle divise su tutto e dunque incapaci di governare, una volta incassato il voto, per eccesso di spinte centrifughe e di veti incrociati, di rivalità interne e di posizionamenti conservativi, sono ormai improponibili ad un elettorato che chiede chiarezza di intenti e di programmi e non è più disposto a tollerare ambiguità e galleggiamenti di alcun genere. E in questo senso, è un bene che la legge elettorale in discussione spinga sul voto di lista, invece che di coalizione, perchè questa è prima di tutto una assunzione di responsabilità nei confronti degli elettori, un obbligo di chiarezza di posizioni e di contenuti cui tutti sono chiamati, una volta per tutte, senza pretendere di far parte di un gruppo solo per velleità di governo, ma lavorando poi ogni giorno per minarne la stabilità e l'operatività dall'interno solo per un misero gioco di forze correntizie in perenne misurazione del proprio potere di veto.
Dunque, la nascente "cosa rossa" a sinistra del Pd, è bene che si costituisca e si definisca al più presto, sommando i resti di Sel, la minoranza sconfitta dei Fassina, dei Civati, dei Cuperlo, la parte identitaria che si specchia ancora nella CGIL, per poi presentarsi finalmente con chiarezza e trasparenza all'elettorato, sulla base di un proprio programma di governo, e non più annidata nelle fila del Pd, pronta a rimettere in discussione ad ogni piè sospinto decisioni prese a maggioranza dalla Direzione del partito, dilatando così all'infinito i tempi del cammino delle riforme. È bene, ma soprattutto è necessario e doveroso, che costoro, preso atto della loro diversità antropologica e culturale, prima ancora che politica, dalla maggioranza attuale del Pd, si stacchino e portino la loro lotta all'esterno, in campo aperto, a viso scoperto, rischiando in proprio e, prima di tutto, sottoponendosi al giudizio degli elettori, come avviene in democrazia.
Questo comporterà di certo due vantaggi: il primo, una chiarezza di offerta politica nei confronti dell'elettorato che saprà esattamente entro quali termini si muoverà il Pd, ed entro quali termini si muoverà invece la "cosa rossa" e potrà dunque scegliere senza dover poi pagare il prezzo di ambiguità e di postumi riposizionamenti dopo il voto, nell'eterno gioco delle correnti e degli sconfitti che vogliono invece comportarsi da vincitori. Il secondo vantaggio sarà per tutti, ovvero quello di poter finalmente distinguere con chiarezza fra le forze in campo, tra una sinistra riformista, collocata nell'ambito delle forze europee dello stesso avviso, ed una sinistra antagonista e passatista che è andata a cercarsi un leader greco per presentarsi alle ultime elezioni e che, nel nostro paese, riunisce un fronte di leaderini minimi, da Vendola in giù, costretto a fare aggio sulle manifestazioni sindacali per presentarsi in piazza, ed a rimangiarsi tutto quanto sostenuto a suo tempo firmando programmi di coalizione - in primis, l'europeismo professato dal Pd - ora che il partito non è più "cosa loro". E d'altronde, nelle democrazie evolute si distingue sempre una sinistra riformista da una estrema e conservatrice, dunque a questo dobbiamo arrivare anche in Italia, uscendo una volta per tutte dal comodo terreno dell'ambiguità che è stato solo fertile coltura di rendite di posizione per personaggini che, altrimenti, mai nessuno avrebbe nemmeno sentito nominare.
Lo stesso processo si sta avviando a destra, dove Salvini ormai parla chiaramente di voler costituire una destra lepenista - e non più un centrodestra, per totale dissoluzione del centro - e giustamente si rivolge alla Meloni, anche se poi, con quella furbizia bertoldesca che lo contraddistingue, non rinuncia ai giochetti della vecchia politica, stringendo alleanze locali con Forza Italia - come ha fatto di recente in Toscana, per le prossime elezioni regionali - mentre a livello nazionale annuncia di voler scaricare Berlusconi. È evidente che, in territori dove raccoglie poco o nulla in termini di voti, Salvini miri a limitare il danno alleandosi con chi pure dichiara di voler rinnegare, ma in termini generali vale anche qui quanto detto per l'area di sinistra, ovvero che la costituzione di un soggetto di destra, senza ambiguità programmatiche e con intenti dichiarati, farà chiarezza anche in questo campo, e distinguerà fra una destra moderata - che resiste nel Patto del Nazareno, per volontà del solo Berlusconi, ma è inesistente in termini di leadership e programmi, come sempre, al di fuori di lui - ed una estremista, consentendo dunque agli elettori di fare una scelta chiara e netta, senza manfrine postume come quelle che abbiamo visto consumarsi negli anni tra Bossi, Fini e Casini, tutti in gara per il delfinato, e tutti sconfitti dalle proprie ambizioni. Senza alcun rispetto di chi li aveva votati entro una sola coalizione.
In questo quadro, scompare il cosiddetto "centro" che poi è stato la vera, profonda, immobile palude che ha fin qui fagocitato ogni scintilla di movimento riformista ed ha impedito ogni tentativo di cambiamento, avviluppandolo nelle spire dei propri riti paralizzanti. Il bipolarismo vero prevede forze chiare e definite, posizionate e dichiarate, non ha centri ma regole precise: chi vince governa e se ne assume la responsabilità di fronte agli elettori che hanno potuto esprimere il loro voto senza ambiguità o rischi di veder poi rovesciati i programmi all'interno del partito da loro votato. Si gioca a carte scoperte, come è giusto che sia in una democrazia matura, quella che non siamo mai stati ma che forse, stavolta, alla buonora, diventeremo.

ChiBo

giovedì 30 ottobre 2014

Burattinai disoccupati Social Club

Si è molto scritto, in questi giorni, su quella parte di sinistra che ha sostituito con l'antirenzismo viscerale l'antiberlusconismo militante dell'ultimo ventennio, usato contemporaneamente come unico collante di forze altrimenti disgregate e divise su tutto, e come copertura del totale vuoto di idee e di progettualità politica che ha causato il progressivo ripiegamento e la consistente perdita di voti del Pd e dei suoi alleati. In effetti, i toni sono gli stessi, stessa è la affannosa ricerca di una delegittimazione ad ogni costo anche se, in questo caso, contro ogni logica visto che Renzi è stato eletto Segretario del Pd con le primarie, con i voti di quasi due milioni di elettori del partito, e dunque farlo passare per un alieno usurpatore è esercizio un tantino più complesso della rappresentazione che invece si è fatta negli anni di Berlusconi, come prodotto di un bacino elettorale di minus habens ipnotizzati dalle sue reti televisive, ma tant'è, nel furore della battaglia a difesa delle rendite di posizione non si può pretendere che partecipi anche la logica, specie quando l'invettiva lanciata a casaccio è tanto più efficace, mediaticamente, e tanto meno faticosa del ragionamento.
Ma in questa condivisibile analisi dei fatti, manca una categoria, a completamento del quadro dello scontro in atto, ed è quella più subdola, più sottile, più arrogante perchè travestita da saggia osservatrice che vorrebbe vendersi per distaccata e razionale, e dunque obbiettiva e disinteressata, e naturalmente preoccupata solo delle sorti del paese, mentre invece patisce male, e metabolizza peggio, la propria caduta dalla cattedra dove si era, del tutto immeritatamente, installata. La categoria dei burattinai rimasti disoccupati merita davvero un approfondimento a parte, un ritrattino ad hoc, prima che sparisca nell'oblio, perchè ne resti comunque il ricordo, insieme a quello del danno che ci ha procurato e che ancora tenta di procurarci, con le residue forze - per fortuna sempre più esigue - che le sono rimaste.
I componenti di questo Social Club per reduci di lungo corso, si distinguono per due significative caratteristiche: hanno partecipato, a vario titolo e spesso per lungo tempo, al governo di comuni, province, regioni, partecipate, enti pubblici, ed hanno fatto politica nella  Prima e nella Seconda Repubblica seguendo il consolidato schema consociativo per cui si fa finta di scontrarci ma intanto si regna tutti insieme, ci si accorda su tutto, ci si blocca amabilmente con piccoli quanto redditizi poteri di veto da far valer negli immancabili quanto inconcludenti tavoli delle trattative, e intanto si resta tutti solidamente al proprio posto, inanellando pensioni d'oro, vitalizi di platino, a conferma che la politica, se fatta con criterio, allunga la vita a dismisura, e certo ne migliora la qualità individuale. E pazienza se il rovescio della medaglia è la progressiva paralisi di un paese, mors tua vita mea è da sempre il primo motto della nostra repubblica corporativa.
Ora, ciò che ha sempre permesso a costoro di restare a galla, oltre ad un reddere ationem sempre rinviato più avanti, nel tempo cristallizzato di un'unica generazione al potere, sempre la stessa, al comando da settant'anni, è la loro consolidata attività di burattinai, altrimenti nota come cooptazione, ovvero: cari ragazzi state buoni e mettevi in coda, dateci retta, obbediteci, serviteci e sosteneteci fedelmente, poi quando avrete almeno cinquant'anni vi permetteremo di accedere ad incarichi più alti, ma sempre restando sotto la nostra ferma ed inoppugnabile guida, chè qui comandiamo noi e su questo non si discute.
Dunque, il problema che ora li intossica, e li spinge all'ultima, si spera, disperata offensiva mascherata niente meno che da lotta contro il nuovo tiranno Renzi, è che costui ha osato fare a meno di loro, costituendo un precedente pericolosissimo perchè potenzialmente letale per la sopravvivenza dell'intera categoria. Ci hanno provato, fin dall'inizio, a manipolarlo, alcuni lo hanno persino sostenuto pensando poi di poterlo governare a loro piacimento, riproponendosi nell'eterna veste di padri nobili e consiglieri infallibili, ma stavolta gli è andata male, perchè il ragazzo ha mostrato subito una inequivocabile ed  irresistibile propensione a fare di testa sua, ed ha esercitato quel sano diritto-dovere che dovrebbe essere proprio e naturale di ogni generazione, ovvero quello di andare a conquistarsi la propria posizione senza chiedere permessi e benedizioni a nessuno, una cosa del tutto fisiologica nel resto del mondo, un atto di inaudita ribellione nel paese dell'unica sempiterna generazione al comando.
Che dunque ha cominciato a sparargli addosso, ed a farlo con furbesco cinismo, l'unico ingrediente che permette di proporre continue giravolte di pensiero spacciate per profetiche previsioni almeno tre volte al dì. O alla settimana, o al mese, a seconda dei tempi di reazione necessari ad assorbire ogni malaugurio caduto nel vuoto ed a reinventarsi esperti nella strategia del nulla mischiato con qualche amena bugia. La tattica è questa: sorvolare saggiamente su ogni responsabilità maturata nel disastro di questo paese, riproporre vecchi cavalli di battaglia, già ampiamente falliti ma sempre buoni per i poveri di spirito, agitare lo spettro della democrazia in pericolo, aggiungere la profezia del tiranno in pectore, e spostare sempre l'asticella un po' più in là, ad ogni previsione sbagliata. Cadrà sul Senato, no, sul Jobs Act, no, sulla Finanziaria, no, in Europa - prossima fermata, temiamo, i disordini di piazza.
E intanto, ripetere che Renzi "non ascolta", messaggio in codice per dire che non ascolta costoro, i saggi, i manovratori, i gestori della cosa pubblica mandata allo sfascio.
E intanto, deridere i suoi elettori, quelli che vanno alla Leopolda, e non si capisce, perbacco, perchè invece non siano accorsi in massa a qualche ristretta riunione di reduci e vecchie glorie dello zero virgola nulla, ad imparare come si fa a stare al mondo e galleggiare sempre. E davvero questi giovani sono maleducati e riottosi, preferiscono andare a sentire uno di loro, che li spinge a non aspettarsi nulla dall'alto ma a battersi per ciò che vogliono conquistare, invece di partecipare ad un bel convegno sulla necessità di inchiodare ancora questo paese  per un paio d'anni con una bella, vasta, colta, saggia, interminabile e del tutto inutile discussione sulle riforme. Come se averne parlato per trent'anni non fosse stato abbastanza.
E intanto, ammiccare fra nati imparati e nati tutelati, fra un Social ed un club privè, fra una fondazione ed un convegnino, fra un "fummo i gattopardi" ed il "abbiamo ancora ragione noi ma ce lo diciamo fra pochi, che costruire consenso e voti pare brutto ed anche un tantino, ecco, cheap".
E intanto, continuare a raccontarsela, guardando sempre indietro, senza mai riconoscere i proprio errori, per carità, come se il presente non esistesse ed il futuro non fosse tutto da costruire.
E intanto, illividire di meschino rancore per chi, a differenza loro, ha fatto a meno di padri e padrini, di manipolatori e burattinai, e testardamente va avanti da solo, aprendo la strada ad una nuova generazione ma anche, già, a quella che la seguirà.
E intanto, non capire che questo paese ha già scelto, e non per mancanza di alternative - ultimo desolante alibi degli sconfitti da se stessi - ma perchè ha finalmente capito una lezione importante, ovvero che è meglio pagare gli inevitabili errori di inesperienza di una nuova generazione, piuttosto che continuare a pagare il conto senza fine di quelli che ci hanno portato a questo disastro.
Con buona pace del Burattinai disoccupati Social Club.

ChiBo

lunedì 27 ottobre 2014

Due sinistre e un sindacato

Tutto ruota intorno ad una domanda: le 19.000 persone di ogni età e condizione sociale che per tre giorni hanno affollato la Leopolda - dove, giova ricordarlo, sono arrivate a spese loro - partecipando animatamente e costruttivamente ai cento tavoli di confronto, possono essere considerate parte di quel "paese reale" che, invece, è stato individuato a prescindere nella piazza di San Giovanni? Sono cittadini come gli altri, oppure la loro scelta di riconoscersi nella politica come laboratorio di idee e progetti, invece che come prova muscolare affidata al rilievo numerico, li colloca in una categoria parallela, per non dire aliena, per non sottintendere estranea, alla vita sociale e civile di questo paese?
La domanda non è oziosa, men che meno pretestuosa, non solo perchè la si è colta ovunque, alla Leopolda, via via che arrivavano da Roma le dichiarazioni dal palco e dalla piazza della manifestazione, ma soprattutto perchè riflette bene la reale linea di confine che da tempo si è trasformata in vera e propria trincea interna al Pd, da quando Renzi lo ha conquistato vincendo le primarie e diventandone il Segretario, scelto dagli elettori ma inviso alla vecchia, non solo anagraficamente, classe dirigente. Che lo avversa, lo percepisce estraneo e lo respinge come un virus aggressivo che mette a dura prova gli anticorpi indeboliti da anni di frequentazione di spazi sempre più ristretti ed autoreferenziali. E che trasferisce questa avversione su coloro che lo appoggiano, non riconoscendoli come un corpo elettorale ma come un corpo estraneo, non collocabile entro un bacino identitario, non riconducibile ad una tradizione precisa, ad una formazione univoca, ad una matrice comune radicata nel passato, e dunque una entità da temere e da respingere - come nelle sciagurate primarie Bersani-Renzi - non certo da accogliere per compiere finalmente quella vocazione maggioritaria che ancora viene considerata una perdita irreparabile di identità, invece che una ragionevole e costruttiva operazione di allargamento dei propri confini politici ed anche, o prima ancora, sociali e culturali.
Da questo punto di vista, la scissione si è già verificata da tempo, e la giornata di sabato l'ha solo rappresentata plasticamente. La ex maggioranza, divenuta minoranza per volere del proprio stesso elettorato, quello che ha scelto Renzi come Segretario, incapace di metabolizzare le ragioni della propria sconfitta, e men che meno di riconoscerle, sceglie di giocare su due tavoli, dentro e fuori il Pd, per pavidità ed ipocrisia, riducendosi ad accodarsi ad una manifestazione sindacale invece di assumersi in prima persona le proprie responsabilità e compiere un gesto coerente, fondando un nuovo soggetto a sinistra che, però, con grande probabilità li condannerebbe all'inesistenza per esiguità di consensi. Chè le piazze piene, diceva saggiamente qualcuno, portano urne vuote e, aggiungiamo, oggi la mobilità elettorale è diventata una realtà con cui fare i conti anche in Italia, come hanno dimostrato le ultime elezioni politiche ed europee.
La nuova maggioranza invece ha scelto di giocare su un tavolo solo, molto più ampio, quello dell'inclusività sulla base di una confluenza trasversale di intenti intorno ad un progetto, ad una proposta di approccio e soluzione dei problemi endemici del nostro paese; un tavolo riformista che, a differenza delle eterne discussioni sul nulla mai approdate ad alcunchè, pone degli obbiettivi, si da dei tempi stretti e poi decide ed agisce di conseguenza. Il cosiddetto partito della Leopolda, nato da questi presupposti, aperto a tutti quelli che vogliano partecipare, senza barriere ideologiche, senza spocchie e snobismi di casta, senza giuramenti per la vita, grazie al pragmatismo estremo e lucido di un leader che sa benissimo che il consenso, quello che poi si traduce in voti, oggi non è più dato da una fede immobile e dogmatica praticata a prescindere, ma è invece una fiducia a tempo che si concede e poi si ridiscute sulla base dei risultati ottenuti.
Dunque, fra il palco - non la piazza, il palco, e chi ci sta sopra - di San Giovanni, e la Leopolda, corre la stessa abissale e non riassorbibile distanza che separa due secoli, quello scorso e l'attuale, e due concezioni della politica, quella conclusa per sempre degli "ismi" novecenteschi e quella mobile e liquida di oggi. Le due sinistre del Pd quindi sono reali, ed il sindacato della Camusso funge da foglia di fico di una delle due, quella oggi minoritaria ma per decenni imperante e paralizzante con cui è andato a braccetto, fino ad arrivare a confondersi, a travasarsi, a condividere leaders e prese di posizione sempre in chiave immobilista e corporativa.
È gioco facile sottolineare come la sinistra che non votò lo Statuto dei lavoratori oggi lo difende, accodandosi al sindacato che ne ha fatto un feticcio senza però applicarlo in casa propria, visto che l'articolo 18 per loro non vale, con il risultato che le grandi controproposte fatte al governo dell'usurpatore Renzi si riassumono in una patrimoniale e nella conservazione di uno status quo invece che nell'estensione di diritti da pochi a tutti. È  gioco facile anche rilevare che la reiterazione dei propri errori è la vera malattia di una sinistra incapace di imparare almeno dal proprio passato, che sconsiglierebbe di scendere in piazza contro un governo ed un Premier espressi dal proprio partito, ma che suggerirebbe anche di liberarsi da questa sovrapposizione totale con il sindacato che, per chi fa dell'identità una ragione stessa di esistenza, non è affatto prova di coerenza ma, semmai, di eccessiva debolezza e di estrema labilità dei propri tratti distintivi.
È gioco ancor più facile osservare che certe livorose esternazioni verso un elettorato percepito come estraneo fino a definirlo addirittura "imbarazzante" sono solo pesanti boomerang destinati a ricadere addosso a chi li ha lanciati con tanta spocchiosa prosopopea, specie se dall'altra parte c'è chi apre le porte a tutti sulla base di un principio di appartenenza a questo paese che è molto più ampio ed inclusivo del limitato e passatista vincolo di bandiera, ristretto nei confini rigidi dell'ortodossia di partito. Perché questi giurassici sopravvissuti a se stessi ed ai propri macroscopici errori stanno scontando già la giusta pena del contrappasso, ovvero scomparire nella minorità da loro accuratamente coltivata e difesa, mentre la vocazione maggioritaria finalmente si afferma come principio di autentica democrazia partecipata: Italia bene comune, slogan della clamorosa sconfitta della Ditta bersaniana, si realizza invece grazie a Renzi ed alla esperienza della Leopolda, che non è un partito ma un luogo dove si è detto che tutti sono benvenuti se davvero desiderano contribuire al bene comune che tutti condividiamo, nel bene e nel male, ovvero le sorti del nostro paese.
Dunque, la scissione è già in atto, ci sono due sinistre ed un sindacato a fare da stampella ad una delle due, e l'unica vera differenza è fra chi è capace di leggere la contemporaneità  e di tradurla in progetto politico che costruisca il futuro, e chi invece resta aggrappato ad un mondo che non c'è più evocandolo in raduni di piazza che paiono sedute spiritiche atte a resuscitare il passato che, però, ha la stessa inconsistenza dei fantasmi. Puoi ancora vederli, ma non hanno più nè peso nè voce. E neanche votano.

ChiBo

lunedì 20 ottobre 2014

Mal di Leopolda

Siamo alla quinta edizione, e ancora non l'hanno capita - naturalmente, ci riferiamo a quelli che alla Leopolda non ci sono mai stati, ma che si sono invece distinti nel corso degli anni per il loro malcelato disprezzo verso questo evento, unito ad una forma di autentico sospetto verso chi, a differenza loro, non teme di aprire le porte ai cittadini, e ad un risibile sforzo, ogni anno più debole e meno giustificabile, per organizzare improbabili contro-eventi sotto l'egida salvifica della bandiera di partito. 
Quest'anno, si son portati avanti con il lavoro, ed hanno cominciato l'opera di delegittimazione prendendola larga, anzi larghissima, chè i signori della non vittoria sono bravissimi in questo - anzi, a guardar bene è l'unica cosa che gli riesce davvero. Costruiscono dal nulla un vago argomentare, lo abbelliscono di un ricamo populista, lo avvolgono su un giro di parole che sale su, fino a culminare nella difesa del partito sottintendendo che il Segretario invece gli rema contro, ed il gioco è fatto. A parole, non li batte nessuno, negli argomenti invece sono un po' meno ferrati, specie quando difettano di una accettabile base logica, chè quella politica, via, non si può pretendere.
E quindi ecco il mitologico Fassina partire all'attacco e sostenere, senza neanche provare un vago senso del ridicolo, che Renzi dovrebbe devolvere ai circoli del Pd i due milioni di euro versati dai finanziatori della Leopolda, invece di usarli per realizzare questo evento che non è del Pd, non è fatto a nome del Pd e dunque, si intuisce dal suo acido insinuare, ha certo finalità poco nobili, mentre si lasciano morire di inedia e di miseria tanti poveri circoli abbandonati a se stessi. Perbacco, dirà qualcuno, ma questo è lo stesso Fassina che non ha battuto ciglio di fronte alla gestione Bersani che ha provocato un deficit di bilancio pauroso nelle casse del partito?! E non dovrebbe sapere che i circoli sono in crisi da anni per colpa di questa malagestione delle finanze del partito ereditata dagli ex diessini che, invece di elargire al neonato Pd il loro ricco tesoro, lo hanno blindato e messo al sicuro nelle Fondazioni, continuando peraltro a spendere come se non ci fosse un domani?! 
Sì, è lo stesso Fassina, solo che lui non sa, non ricorda, non si ripiglia, soprattutto, dal filotto di sconfitte e fallimenti messo insieme dalla Ditta di cui è stato orgoglioso sostenitore, e ricorre a mezzucci verbali di bassissimo livello per delegittimare un evento che gli è estraneo e che gli procura annuali mal di pancia col successo che riscuote, a dispetto di tutti i suoi sforzi per farlo passare come la riunione di una oscura setta dedita a riti cospiratori atti a distruggere per sempre il suo piccolo mondo di travet della politica, irrimediabilmente destinato alla navigazione interna di piccolissimo cabotaggio.   
E a rafforzare questa visione ombelicale ed autoreferenziale, gli è venuto in soccorso Cuperlo, un altro che di passati perduti se ne intende assai, ponendo un interrogativo che è l'epitome della sinistra perdente e dimentica del proprio stesso ruolo: "Che cos'è oggi la Leopolda?! A chi è di aiuto?!". In queste due domande si riassume perfettamente quella totale perdita di contatto con l'elettorato che ha generato la non vittoria del tacchino sul tetto, ovvero una concezione di partito come conventio ad excludendum, riservata ai soli iscritti, ai circoli, alle sedi chiuse, ai rituali congressuali celebrati fra simili, alle correnti gestite come trincee inespugnabili di rendite di potere, e mai aperta a quella vocazione maggioritaria che pure fu la spinta fondante ed innovativa del Pd, rispetto alla vecchia narrazione della sinistra novecentesca.
Perchè Cuperlo, come Fassina, non ci fa ma ci è: ad entrambi sfugge il senso vero della Leopolda, ovvero quello di offrire uno spazio di incontro e di confronto ai cittadini senza chiedere loro una tessera per partecipare, una mappa del DNA per legittimarsi, una adesione firmata col sangue al pensiero unico per poter parlare. È un luogo dove, quattro anni fa, si riaprì la porta agli elettori, cacciati fuori dai partiti e dalla discussione politica, e si disse loro che era il momento di sanare quella frattura, di ricominciare a parlare ed a parlarsi, di individuare obbiettivi comuni da perseguire non in nome di una bandiera ma del bene e dei bisogni di un paese. 
La Leopolda è stata la controproposta - l'unica - alla marea montante dell'antipolitica becera e sguaiata cavalcata da Grillo, ed è stata una alternativa vincente tanto nella formula quanto nel progetto politico che lì ha preso forma, ripartendo da quel dialogo diretto con i cittadini che è il tratto che contraddistingue più di ogni altro Renzi, e quindi il suo governo. I più chic la chiamano disintermediazione, ma si potrebbe definirlo metodo Leopolda, ovvero quello che ha reintrodotto la funzione di cinghia di trasmissione fra cittadini ed istituzioni che la politica italiana aveva completamente rimosso, sino a trasformarsi in un mondo a parte, parallelo e mai tangente quello della gente comune. 
E dunque la risposta alla domanda insipiente di Cuperlo sta esattamente in ciò che lui non può vedere perchè non è programmato a farlo: sì, la Leopolda non solo ha un senso, oggi come ieri, ma "aiuta" - per usare il verbo a lui caro - a raggiungere ed incontrare i propri elettori, che sono un mondo più vasto e variegato degli iscritti, che provengono anche da altre storie ed altre formazioni ma che oggi hanno non solo la curiosità e la volontà di scoprire cosa ha da dire il Segretario del Pd, ma anche di partecipare alle discussioni, ai tavoli tematici, al confronto, portando il proprio significativo contributo, grande o piccolo che sia.
Per questo la Leopolda non è mai stata un evento del Pd ed è giusto che non lo sia neanche oggi che Renzi è il Segretario del partito ed il Premier di questo paese, perchè la capacità di mettere insieme forze e risorse umane diverse e di riunirle intorno ad un progetto, in maniera del tutto trasversale, esce dai confini del partito ed appartiene di diritto a quelli molto più ampi dell'azione politica che, se coerentemente condotta, si traduce in consenso e voti per chi la rappresenta. E certo, i Fassina ed i Cuperlo, cresciuti all'ombra dei capi e figli naturali della cooptazione, mai adusi a conquistarsi qualcosa, men che meno a considerare l'elettorato come un interlocutore molto più articolato e composito   del loro piccolo circolo esclusivo ed asfittico, non possono capire la Leopolda, al limite possono solo riconoscere in questo appuntamento ormai consolidato ciò che ha cambiato - per loro certamente in peggio - il corso della storia del Pd ma soprattutto della sinistra italiana, tirandola finalmente fuori da quelle secche obsolete e stantie che la stavano lentamente strangolando. 
Però, se anche non si riesce a comprendere qualcosa, non è necessario rendersi ridicoli a causa della propria insipienza, ma questo, a quanto pare, l'esilarante duo Fassina-Cuperlo ancora non lo ha capito. Continueranno dunque a farci ridere parecchio con le loro esternazioni, intanto che il mondo va in tutt'altra direzione e, perbacco, riesce a farlo persino senza il loro permesso.


ChiBo 

lunedì 13 ottobre 2014

Beppe Belushi e l'invasione delle cavallette

Bene, ci siamo definitivamente chiariti le idee a proposito di Grillo e del suo movimento, d'altronde l'adunata del Circo Massimo era stata convocata a questo scopo, doveva esprimere con chiarezza una linea politica ed anche un gruppo dirigente capace di attuarla. Il risultato ottenuto è stato l'opposto, e non solo per il favoleggiato milione di persone che doveva accorrere e chissà perchè non lo ha fatto, ma principalmente perchè sono stati saltati, e persino tolti dal programma annunciato, tutti i passaggi che dovevano servire a costruire una road map della maturazione politica dopo la fase adolescenziale della ribellione antipolitica. Ma anche le assenze, anzi spesso le assenze più che le presenze, aiutano a comprendere la natura di un fenomeno ed a leggerlo nella sua sostanziale precarietà.
Il fatto è che, dopo la pessima gestione del risultato ottenuto alle politiche, utilizzato solo per fare muro su tutto in drammatica quanto evidente mancanza di un vero programma politico e di una classe dirigente all'altezza del compito assegnatole, negli ultimi mesi Grillo pare aver sposato la stessa tattica di John Belushi nei Blues Brothers, ovvero spararla grossa, anzi grossissima, e sperare di essere creduto - con la fidanzata abbandonata del film funzionò, nella realtà le cose vanno diversamente, e l'invasione delle cavallette pare più probabile degli improbabili ed avventurosi passaggi istituzionali inventati là per là da un leader in affannosa ricerca di un obbiettivo raggiungibile.
A primavera, in piena campagna elettorale per le europee, il mantra era "vinciamo noi, andiamo da Napolitano e lo costringiamo a far cadere il governo e ad assegnare a noi l'incarico di farne uno nuovo", come se questo esercizio di fantapolitica fosse del tutto praticabile e, soprattutto, possibile, ma il Guru non guarda troppo per il sottile e conta sul fatto che chi è disposto a bersi ogni scempiaggine propagata dal suo blog non sia poi così ferrato sui passaggi istituzionali che regolano la vita della nostra democrazia parlamentare. D'altronde, la maggior parte dei suoi elettori ancora crede che in Italia il Premier venga eletto, vogliamo forse togliergli questa luminosa certezza?!
Sappiamo come è andata alle europee, dunque adesso Beppe Belushi rilancia con le cavallette sotto forma di ricostruzioni a posteriori dell'esito delle politiche - abbiamo vinto noi, quindi dobbiamo governare - mescolate ad un inutile in quanto non legale referendum sull'euro da stravincere, naturalmente, per farne l'arma con cui scardinare il Parlamento ed assumere finalmente la guida del paese. Inutile sottolineare la mancanza di ogni presupposto logico, prima ancora che istituzionale, di questo ragionamento, chi vive di invenzioni immaginifiche non si abbassa a fare i conti con la realtà, sebbene i suoi elettori dovrebbero pur obbligarsi a qualche sano e basico interrogativo sulla concreta possibilità di attuare simili strampalati programmi, ma non si può pretendere.
La verità è che oggi abbiamo sotto gli occhi la concreta evidenza di ciò che abbiamo sempre scritto sul movimento grillino, ovvero che non basta intercettare i voti dei malpancisti e degli scontenti se poi non dai alla protesta un ordine, un senso, un programma e degli esecutori in grado di trarne qualcosa di buono; se l'antipolitica non trova in sè la forza costruttiva della migliore politica, passando attraverso la dialettica, il confronto e l'azione incisiva finalizzata a risultati utili per il paese, è destinata a bruciare dello stesso fuoco che l'ha generata e che poi finisce con l'incenerirla nel proprio sostanziale velleitarismo.
Non è un caso che i sindaci, ovvero quelli che sono passati dal mondo fantastico dell'invenzione pura alla dura realtà delle necessità amministrative, siano stati messi da parte; Pizzarotti ignorato, Nogarin utilizzato come comparsa, mentre il dibattito fra amministratori che doveva aver luogo sul palco è stato annullato. Perchè discutere il passaggio fra immaginario e reale è cosa troppo complessa da affrontare, per un movimento ed un leader che non hanno strumenti per farlo e soprattutto non vogliono averne, preferendo procrastinare questa eterna fase eroica della ribellione a prescindere - non importa se raccontata in termini del tutto surreali - piuttosto che passare alla fase della costruzione faticosa ed impegnativa di un risultato, almeno uno, che si avvicini alle tante promesse urlate e mai mantenute fatte agli elettori in questi anni.
È difficile - se non addirittura impossibile - spiegare il voto contrario all'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, ad esempio, oppure l'astensione nella votazione sul taglio degli stipendi dei dipendenti della Camera, quando hai fatto una intera campagna elettorale contro i privilegi della Casta; quindi si sorvola, non se ne parla, si campa di colpi ad effetto, si sale sulla gru, si urla, si impedisce a chi chiede chiarezza di salire sul palco, e si trasforma un evento nazionale, presentato con alte ambizioni di natura politica, in uno spettacolino confuso e ripetitivo messo al servizio di uno solo, il padre padrone di un movimento che pure si proclama paradossalmente "con la base ma senza un leader".
E le parole d'ordine con cui si e chiuso il Circo, ovvero "basta dialogo" - come se fin qui ci fosse stato, poi - "chiudiamo con tutti", "niente tv", non sono altro che la mera certificazione di una inconcludenza che sta divorando se stessa, di un girare intorno al problema centrale - darsi finalmente una ossatura politica - che sta precipitando nell'avvitamento, di una barricata contro tutto e tutti che alla fine si rivela per ciò che è, un triste caso di autismo isolazionista che finisce col far male solo a chi lo pratica.
Per cui temiamo che, alla fine, Beppe Belushi le cavallette le vedrà davvero, quando i suoi elettori gli chiederanno conto della fiducia tradita - tranquilli, succede sempre, succede a tutti - e non basteranno neanche i nazisti dell'Ilinois con cui si è alleato in Europa ad aiutarlo. In fondo, sarà il giusto epilogo per chi ha fatto della decrescita felice il proprio obbiettivo e, del tutto coerentemente, bisogna riconoscerlo, lo sta realizzando in casa propria.

ChiBo

lunedì 6 ottobre 2014

Leopoldo Cuperlo, l'ultimo fake

Una crisi di identità capita a tutti, almeno una volta nella vita, specie quando il tuo mondo ti crolla addosso all'improvviso mentre sei ancora impegnato a costruirne la mitologia come se il futuro fosse solo una eterna ripetizione del passato, quindi bisogna essere molto comprensivi con il povero Gianni Cuperlo che, piovuto in mezzo a noi direttamente dalla narrativa mitteleuropea, come un personaggio in eterna ricerca di identità mentre tutto intorno a lui cambia e si evolve, si è infine auto-nominato Leopoldo, come uno sbiadito Granduca nato per regnare e finito invece per vagare eternamente in cerca di una corona che non c'è. Più.
Eppure, aveva tutte le carte giuste a suo favore. Quella bionda vaghezza da Principe Azzurro, così blasè, ed un poco imbalsamata, a dire il vero; l'erre blesa, a testimoniare una nobiltà naturale già nel linguaggio, per quanto poi poco o nulla incisiva, specie nella rudezza del dibattito politico; gli studi giusti, atti a collocarlo in quell'area indistinta fra la teoria ed il reale dove sguazzano ambiguamente e comodamente da decenni i nostri intellettuali, sollevati dall'onere di produrre qualcosa di sensato e, non sia mai, utile a questo paese. E poi la collocazione a sinistra, quella giusta a prescindere, riconoscibile dal vezzo aristocratico ed insieme snob del dichiararsi dalla parte degli ultimi senza mai averli incontrati, tenendosi al riparo dalla volgarità tra le mura amiche dei convegni tra simili, delle elette conventicole, delle auree fondazioni - chè la vita, perbacco, è prima di tutto un gesto di stile, una cifra espressiva, mica sporcarsi le mani con la cruda realtà.
E, fino ad un certo punto, la vita è stata tenera, con lui, proteggendolo da ogni confronto, evitandogli ogni contrasto, collocandolo in un ruolo secondario ma solido, ove coltivare operosamente una piccola gloria quotidiana di maître a penser per mancanza di prove, finchè l'improvviso irrompere del barbaro invasore fiorentino ha costretto la vecchia guardia a serrare le fila ed a scendere, per la prima volta e soprattutto per davvero, in battaglia, e che battaglia - la più dura e sanguinosa, quella della sopravvivenza.
Dunque, il Principe Azzurro è stato chiamato ad essere il campione altrui, di quelli che lanciano il sasso e nascondono la mano, ed anche di quelli che non sanno fare tesoro dei propri fallimenti ed organizzare, almeno, una uscita di scena dignitosa. Gli hanno offerto un ruolo bello e glorioso, vocato alla sconfitta fin dall'inizio, come si conviene all'ultimo epigono della Marcia di Radetzky, un ruolo da eroe letterario e post-romantico, mandato al sacrificio senza speranza alcuna di cavarsela ma con l'aura dorata del bello e giusto a coronargli la bionda chioma. Doveva vincere nei circoli, per sperare di frenare, almeno, l'ascesa del Rottamatore al sacro soglio della guida del Pd, e costringerlo a trattare con una parte ancora corposa e dotata di voti sufficienti a rendergli la vita impossibile all'interno del partito. E il bello è che ci credevano davvero, dicevano "vedrete le votazioni dei circoli, siamo avantissimo, le primarie non basteranno a Renzi per spazzarci via". Infatti.
Il Principe Azzurro ha perso là dove non era mai stato, ovvero tra i militanti che non erano pronti a comprenderlo nè a tradurre in termini popolari il suo eloquio alto e vacuo. Ha perso nel confronto con il reale, nell'approccio con la base, che forse è brutta sporca e cattiva, e non legge Proust, ma ha capito che al profumo delicato della madeleine che continua a parlare di passato è preferibile quello più corposo e convincente di chi osa progettare il futuro. Ma ha perso peggio, e nel peggiore dei modi, quando, investito comunque di un ruolo importante come la presidenza del partito, non lo ha compreso nella sua essenziale funzione di sintesi e lo ha confuso irreparabilmente con quel trono che alla sua nascita le fate madrine con i baffi avevano promesso affacciate alla sua culla.
Oggi, nella perdurante ed aggravata crisi di identità che lo affligge e da cui non è in grado di uscire, tanto da vedere la gloria del suo nome perpetuata da uno spassoso, acuto, sarcastico, devastante fake su Twitter che è più noto e certo più seguito di lui, non trova di meglio che riprendere sdegnate e precise distanze da quel popolo che non lo ha voluto come leader, facendo una sciocca e meschina ironia sull'evento che ha segnato l'inizio della fine del suo mondo, quella Leopolda che ha riaperto le porte della politica e della partecipazione ai cittadini e, così facendo, ha saldato un legame forte fra gli elettori ed il proprio leader, traducendolo alla prima occasione in voti veri, sonanti e pesanti, quelli che nel mondo irreale del Principe Azzurro e dei suoi cattivi consiglieri non si erano mai visti neanche con le manovre astute del Gatto con i Baffini.
Così, il povero eroe mancato di un impossibile ritorno al passato, ha chiuso il cerchio e si è battezzato Lepoldo. Ultimo Granduca di un regno che non c'è più. Per fortuna.

ChiBo

lunedì 29 settembre 2014

Vuoti (di memoria) a perdere

Sono meravigliosi, davvero, questi sopravvissuti a tutto, persino ai propri colossali fallimenti che, invece di instillare loro l'umiltà della consapevolezza, o almeno la furbizia del cono d'ombra, li spingono a rilanciare se stessi con ammirevole sprezzo del reale e ad impancarsi a maestri di vita e di condotta politica, seduti sull'aureo trono della imperitura gloria del loro passato senza qualità.  
Succede così che un D'Alema ormai illividito dal rancore rilasci interviste che paiono uscite dall'archivio di qualche antica pubblicazione del secolo scorso, con quel linguaggio da intellettualino velleitario e schizzinoso che presume che il centralismo democratico ed i quaderni di Gramsci siano argomento di conversazione quotidiana nelle famiglie italiane, pane e companatico da mettere in tavola insieme alle vere preoccupazioni della vita che trovano riscontro e soluzione solo nella vecchia cara convinzione che, in fondo, noi non possiamo capire ma graziaddio possiamo ancora affidarci alla saggezza di coloro che tutto sanno per aver tanto, e tanto a lungo, sperimentato la dura lezione del potere fine a se stesso.
Dunque, è normale e persino doveroso che in tanta profusione di consigli non richiesti ed ardite quanto improbabili ricostruzioni di manovre oscure tessute da perfidi ed inquietanti  burattinai, il grigio veggente si dimentichi - ops, sarà l'età - di menzionare sia pure di striscio il lungo elenco dei propri disastri, compreso il rapidissimo inchino a Cofferati con cui bloccò la propria stagione riformista, durata circa un mese. Ed è ancora più normale, anzi scontato, nella logica furbetta e tranchant che da sempre lo distingue, che eviti di ricordare i lunghi decenni della sua permanenza al potere, la sua innegabile connivenza con una interminabile stagione politica che blocco dopo blocco, compromesso dopo compromesso, rinvio dopo rinvio, concertazione dopo concertazione, trattativa dopo trattativa, è culminata, anzi precipitata, nel disastro economico e sociale che ci sta divorando.
Va capito, poveruomo, altrimenti non potrebbe esercitare tutto il sacro furore del suo sdegno morale verso il Nuovo, l'usurpatore, il barbaro invasore che avrà molto difetti ma certo non responsabilità nella pesante eredità dello sfascio che oggi si trova a dover gestire. E questo, la vecchia volpe lo sa, agli occhi degli elettori è fattore dirimente, e pesa assai, conviene dunque tentare di giocare ancora la vecchia carta del saggio consigliere, dimenticandosi di dire quanto è logora e, soprattutto, bollata per sempre col marchio della inadeguatezza alla sfida.
D'altronde, in questo gioco dei vuoti di memoria è in buona compagnia, con Bersani che gli fa eco e ripropone ad ogni piè sospinto la retorica della Ditta, fantomatica Spa costituita dalle innumerevoli correnti interne del Pd, da lui presieduta con gli stessi toni e la stessa rassegnata operatività del liquidatore fallimentare chiamato a chiudere il meno dolorosamente possibile una impresa in perdita netta. Con tutta la dovuta attenzione a non urtare i suscettibili titolari, responsabili di disastri epocali ma tanto sensibili, poverini, al lato umano della solidarietà tra perdenti. Quello del "negare tutto, negare sempre" in nome del bene comune che corrisponde inevitabilmente a quello della tutela della propria immagine di pseudo-statisti, reale o virtuale che sia.
E certo, visto da fuori, colui che ha portato il Pd al punto più basso della propria storia, in termini di voti e di fiducia dell'elettorato, e si è fatto trascinare per due mesi nella via crucis della inesistente trattativa con i grillini prima di finire impallinato dal fuoco amico in Parlamento, pare il meno indicato a dare consigli e addirittura a porre out out a chi gli è succeduto con un consenso vasto, forte e trasversale che, ad oggi, non accenna a scemare. Riconosciutogli da quelli stessi elettori che, a quanto pare, sono meno inclini all'oblìo di quanto si pensi e riescono ancora a dare con precisione un nome ed un cognome a decenni di promesse mancate, rimangiate, rinnegate, dimenticate, in nome della Ditta, dell'unità a sinistra, dell'equilibrio fra correnti, della non belligeranza con le parti sociali, della sostanziale immobilità buona a galleggiare ma non a uscire vivi dalla tempesta.
Ed oggi che questi superstiti combattono la battaglia della vita, o meglio, della sopravvivenza, l'ultima, la più sanguinosa, quello che colpisce davvero non è neanche la cieca ostinazione con cui difendono l'indifendibile, nè la livorosa incapacità di riconoscere i propri madornali errori, ma l'ottusa pervicacia con cui restano attaccati ad un mondo che è finito da decenni, ad un linguaggio che nessuno, tranne loro, è in grado di comprendere, a riti e liturgie che erano già consunti quando costoro hanno iniziato a praticarli, ma soprattutto ad una visione delle cose che è del tutto svincolata dalla realtà e dalla contemporaneità.
Sono apocalittici e reintegrati, vuoti a perdere già risucchiati nel passato dove ancora tentano di ricacciare anche noi, in preda ad un cupio dissolvi che basterebbe da solo a farci prendere per sempre le distanze da chi, pur di salvare se stesso e la costruzione fasulla del proprio mito personale, è capace di sacrificare quel che resta della capacità di sopravvivenza di questo paese.
Sono Maestri, sì. Di distruzione.

ChiBo

lunedì 22 settembre 2014

Chiedi chi era la Camusso

Un tempo, qualcuno identificò il gap generazionale nella fatidica domanda "chiedi chi erano i Beatles", invitando a porla ad una ragazzina quindicenne che candidamente, e persino con qualche ragione, avrebbe risposto "ma chi erano mai questi Beatles?" - le canzoni, si sa, spesso anticipano l'archeologia sociale di cui è vittima ogni generazione, come da legge di natura. Oggi, bisognerebbe aggiornare il quesito e domandare ad un qualunque giovane in cerca di un lavoro "chi è la Camusso" - ammesso, e non concesso, che questi sia al corrente dell'esistenza di cotanto personaggio, di certo risponderebbe che di lei non gliene cale alcunchè, ed avrebbe le stesse ottime ragioni, per dirlo, della ragazzina che ignorava l'esistenza dei Beatles.
Perchè la leader di un sindacato che, su circa cinque milioni di iscritti, ne ha quasi quattro di pensionati, in effetti ad un giovane ha poco o nulla da dire, e neanche per evidenti limiti anagrafici, ma per manifesti limiti del concetto stesso di lavoro da lei rappresentato. Una sorta di pianeta immaginario dove dalla nascita alla morte si conserva lo stesso posto, nello stesso luogo, nella stessa azienda e nello stesso settore, pubblico o privato che sia, con gli scatti di anzianità previsti a prescindere, la rigidità inflessibile dei rituali contrattuali, l'inamovibilità garantita che impedisce uno spostamento persino da una scrivania all'altra, e la certezza del reintegro qualunque cosa accada. Un pianeta anche di limitate dimensioni, quello del lavoro dipendente, pubblico o privato, e di indubbi privilegi rispetto alla giungla vasta ed oscura dei liberi professionisti, dei collaboratori a vario titolo, ma sempre a tempo determinato, dei precari in genere, costretti, e spesso persino interessati, un vero scandalo, a spostarsi di sede, a cambiare mansioni, a formarsi per migliorare, e del tutto privi di quel bagaglio confortante di ipertutele, meglio note come diritti acquisiti - e dunque promossi al rango di inalienabili - di cui i sindacati per decenni hanno dotato i loro iscritti, dimenticandosi di tutti gli altri.
Salvo salire su un palco ogni tanto a strillare che il precariato è una vergogna e che lo stato deve investire per creare posti di lavoro - e nessuno che gli abbia mai fatto presente che lo stato non fa impresa, mentre invece amministra, e dunque il compito di chi governa è di mettere in condizione l'impresa di creare lavoro, e non di assumere questo onere in prima persona. Anche perchè, quando questo accade, in virtù di quelle botte clientelari cui tutti i partiti vanno soggetti proprio come alle malattie infettive, si creano casi magistrali come quello dei forestali della Calabria, che da soli sono il doppio di quelli del Canada, oppure dei duemila portatori di carte della Regione Sicilia assunti per spostare documenti da un piano all'altro del Palazzo della Regione, chè fare una mail interna con le carte scannerizzate pareva brutto ed impersonale, vuoi mettere la carineria della consegna a mano?! Altro stile, altra eleganza.
Dunque, ad un giovane della Camusso non può importare di meno, poichè non è in alcun modo rappresentato da lei e dal suo archeologico sindacato, figuriamoci dal suo corporativo e persino elitario concetto di lavoro. Men che meno, poi, può importargli di quella costante e lucrosa attività, esercitata come primaria occupazione da associazioni sindacali e non solo, altrimenti detta tavolo delle parti sociali, dove negli anni, e con la colpevole complicità di una politica imbelle, fragilissima e per di più totalmente dipendente dai propri serbatoi elettorali, è passato il concetto che le parti sociali, che rappresentano singoli interessi corporativi, siano prevalenti e persino prevaricanti rispetto agli eletti dai cittadini, dotati dunque di un legittimo mandato a governare e decidere, fino a rovesciare le parti della rappresentanza democratica.
Il diritto di veto e di ricatto, le posizioni ostative ed ostili, lo spettro della piazza in sciopero, sono state armi efficaci in mano alle parti sociali, che hanno avuto buon gioco a far prevalere gli interessi di una singola categoria rispetto a quelli di un intero paese, tutelando solo i fortunati estratti alla lotteria del posto fisso e voltando le spalle a tutti gli altri - ma siccome questo non era sufficiente, si sono anche messi di impegno ad ostacolare coloro che già erano stati reietti, per esempio demonizzando le partite IVA, per esempio rendendo impossibile ogni più piccola modifica al mercato del lavoro fino a paralizzarlo completamente, in nome di intoccabili tabù come l'articolo 18, che riguarda in realtà pochi lavoratori ma sono proprio quelli che risiedono stabilmente sotto la protezione dei sindacati. Al punto che, oggi, al giovane cui della Camusso non importa nulla, pare di capire, e non è lontano dal vero, che questi personaggi preferiscano una generazione senza lavoro, ad una generazione messa in grado di affrontare gli effetti della globalizzazione sul mercato del lavoro con strumenti adeguati, primo fra tutti la flessibilità.
E se questa vergognosa e pretestuosa barricata messa in piedi dalla tristemente nota compagnia di giro composta da sindacati e vecchia sinistra ancora intenzionata a rivalersi delle proprie sconfitte, a costo di farlo sulla pelle viva di questo paese al collasso, peraltro per colpa loro, se questo monumento nostalgico e barricadiero innalzato da quelli che sono stati e sono ancora la negazione di ogni forma di lettura della contemporaneità, non cade finalmente per un atto di sano e persino disperato buon senso, politico e sociale, cadrà invece pesantemente il sistema bloccato e corporativo che costoro hanno costruito, e cadrà addosso a tutti noi, iper tutelati compresi, perchè così come è non può più reggere e sta morendo di mancata crescita.  
Dunque, non stupitevi se chiederete ad un giovane "chi è la Camusso", e quello vi risponderà: "ah sì, quella che in Jurassic Park usciva dall'uovo di dinosauro".

ChiBo

lunedì 15 settembre 2014

Chi ha paura del post-ideologismo?

Sostiene Scalfari, nella sua omelia domenicale, che il vero problema dell'attuale Pd sia quello di avere un Segretario post-ideologico ed una nuova, intesa anche come giovane, dirigenza non connotata ideologicamente, che segnano una sorta di spartiacque con il passato recente e remoto della vita politica italiana, condizionando per di più negativamente l'azione di governo.
Nell'interpretazione scalfariana, ciò costituisce un passaggio esecrabile verso un sostanziale impoverimento della capacità di visione e dunque di progettazione che la politica, per sua stessa natura, dovrebbe possedere, in favore invece di una riduttiva, limitante e limitata strategia del qui ed ora, ovvero della lettura quotidiana del presente sostituita alla potenza immaginifica del futuro.
Ma per chi ha buona memoria delle vicende della Prima e della Seconda Repubblica, e conosce, anche per averla vissuta in prima persona, tanta parte della storia politica e sociale del Novecento italiano, potrebbe essere facile, e persino doveroso, rovesciare quanto scritto da Scalfari in positivo, riconoscendo in questo passaggio al post-ideologismo - sia pure molto tardivo rispetto agli eventi storici che hanno messo fine al secolo breve, e per di più raggiunto a strattoni e, per ora, in maniera non organica e culturalmente radicata -  un fattore di superamento dello stallo imposto da opposte fazioni che ha caratterizzato tutta la nostra storia repubblicana, conducendo di fatto il nostro paese ad una paralisi politica, economica e sociale da cui possiamo uscire solo tagliando definitivamente il soffocante cordone ombelicale delle ideologie tradizionali.
Perchè se è vero, come scrive Scalfari, che nessuno di noi può dirsi privo di ideologia, platonicamente intesa come modello ideale di valori e principi cui facciamo riferimento, è purtroppo anche vero che la politica italiana si è nutrita di ideologismi, che sono i derivati tossici, infruttuosi e per di più poverissimi del modello ideale, quelli che hanno comportato la trasformazione costante e devastante della dialettica politica in perenne ed accidioso scontro tribale, fermando sul nascere ogni tentativo di riforma e di cambiamento, impantanandolo nella melmosa ed improduttiva querelle retorica che è l'unica cosa che i partiti hanno saputo produrre negli ultimi decenni.
Quindi il velenoso "neoliberista" contrapposto allo sprezzante "statalista", il classico "capitalista" opposto al sempre verde "populista", e così via, hanno trasformato in categorie politiche in perenne conflitto le idee che pure li avevano generati ma di cui, nel frattempo, si era persa ogni traccia e, peggio, ogni residua memoria del principio che le aveva ispirate, riducendo il tutto ad una mera contrapposizione fra blocchi corporativi, ognuno in difesa dei privilegi conquistati, e tutti uniti nel voler mantenere il più a lungo possibile lo status quo ante. Che è l'esatto contrario di quella visione del futuro dinamica e progettuale che invece Scalfari attribuisce alla vecchia politica, sbagliando, perchè è la stessa politica che non ha saputo riformare se stessa ed il nostro paese, quella che ha sempre rimandato ogni cambiamento ed ha finito per consegnarsi nella mani dei tecnici, per manifesta impotenza a gestire persino una uscita di scena dignitosa dopo il proprio clamoroso fallimento.  
Dunque, oggi abbiamo sommamente bisogno di post-ideologismo che, a spanne, pare essere l'unico modo per lasciarsi per sempre alle spalle le tribù politiche del Novecento ancora resistenti nel terzo millennio, e ripartire su basi diverse, che non sono prive di idee, come lascia intendere Scalfari fra le righe, ma che ne portano di nuove, a cominciare da quella di un partito che non sia solo un patto scellerato ed elefantiaco fra correnti, ma uno strumento più agile e duttile per agevolare il rapporto tra politica e cittadini, e fra questi e chi li rappresenta, degnandosi persino di ascoltarli e consultarli.
Ma, soprattutto, abbiamo disperatamente bisogno di quella politica del qui ed ora, che Scalfari addita come povera e riduttiva, perchè è quella che ci è sempre mancata, portandoci al disastro di oggi. È la politica del "si fa perchè è necessario e non rinviabile", opposta alla politica del "apriamo un tavolo, convochiamo una Commissione, istituiamo una Costituente" tanto cara ai cultori degli ideologismi e tanto utile a tenere tutto fermo, decennio dopo decennio, nella perenne attesa di quel Godot che in Italia è meglio noto con il nome di riforme.
E per fare qui ed ora, sia chiaro, una visione del futuro bisogna pur averla, non è una navigazione a vista ma una procedura di progressivo avvicinamento agli obbiettivi che una politica pragmatica deve necessariamente porsi, ma che, a differenza del passato, non può più limitarsi a collocarli in un futuro ipotetico e sempre spostato in avanti, immettendo invece nell'impegno quotidiano quella incisiva e concreta operatività che, fino qui, è sempre stata demandata agli eterni tavoli dei saggi mai giunti a risultato alcuno.

ChiBo  

giovedì 11 settembre 2014

Tutti al Circo

Eh, lo so, siete tutti lì in trepidante attesa del più grande spettacolo dopo lo Tsunami tour - e certo si potrebbe notare che la scelta dei nomi, a volte, non porta benissimo, visto che lo Tsunami, alle europee, è ricaduto su chi lo aveva predicato, ma non stiamo qui a sottilizzare. L'evento è alle porte, e si annuncia epocale.
Certo, averlo definito di partito, con un lapsus involontario quanto significativo per chi si picca di essere un movimento e non quella cosa sporca, brutta e corrotta a prescindere che è universalmente nota come partito politico, non depone bene, però si può capire che l'entusiasmo organizzativo e, soprattutto, promozionale, abbia preso la mano al Guru della controinformazione, spingendolo involontariamente a rifugiarsi in un linguaggio buono per qualunque collaudatissima festa dell'Unità, ma sono i contenuti, perbacco, a contare davvero.
Quindi, ad esempio, la presenza annunciata di "quasi tutti i comuni" - e gli assenti, che problemi hanno, a tenerli lontani dall'imperdibile kermesse?! -  dove i Cinquestelle sono entrati, prova provata, sostiene sempre il Guru, che loro stanno marciando a "velocità elevata" alla conquista del Paese. E certo, si potrebbe fargli notare che tra eleggere un semplice consigliere comunale ed un sindaco, corre una non lieve differenza, e quanto alla velocità, poi, se gli oltre tre mesi occorsi a Nogarin per mettere insieme uno straccio di giunta a Livorno, con gli assessori nominati e dismessi nel giro di ventiquattro ore per obbedire ai diktat dei meet up, costituiscono un esempio, abbiamo visto bradipi muoversi molto più velocemente. Ma, di nuovo, non si può pretendere di frenare l'enfasi propagandistica con la noiosa realtà dei fatti - e che ci azzecca, avrebbe detto qualcuno di non felicissima memoria?!  
Quello che invece colpisce, e parecchio anche, da parte di chi ce la mena ormai da anni con la solfa della politica ridotta a spettacolino grazie all'informazione corrotta e complice, è il ricorso in dosi massicce alla spettacolarizzazione dell'evento, spinta alle stelle magnificando l'installazione di un palco futuristico da far morire di rabbia i Rolling Stones, noto gruppo di giovani promesse di belle speranze scelto come paradigma di modernità dal Profeta del futuro prossimo e sventuro. A dimostrazione che lo spettacolo è indegno se lo fanno gli altri, mentre è nobile e per di più innovativo quando viene usato per promettere alla gente panem et circenses.
Dunque, tutti al Circo Massimo - chè quello di Moira, purtroppo, era già tutto prenotato da tempo.

ChiBo