lunedì 29 settembre 2014

Vuoti (di memoria) a perdere

Sono meravigliosi, davvero, questi sopravvissuti a tutto, persino ai propri colossali fallimenti che, invece di instillare loro l'umiltà della consapevolezza, o almeno la furbizia del cono d'ombra, li spingono a rilanciare se stessi con ammirevole sprezzo del reale e ad impancarsi a maestri di vita e di condotta politica, seduti sull'aureo trono della imperitura gloria del loro passato senza qualità.  
Succede così che un D'Alema ormai illividito dal rancore rilasci interviste che paiono uscite dall'archivio di qualche antica pubblicazione del secolo scorso, con quel linguaggio da intellettualino velleitario e schizzinoso che presume che il centralismo democratico ed i quaderni di Gramsci siano argomento di conversazione quotidiana nelle famiglie italiane, pane e companatico da mettere in tavola insieme alle vere preoccupazioni della vita che trovano riscontro e soluzione solo nella vecchia cara convinzione che, in fondo, noi non possiamo capire ma graziaddio possiamo ancora affidarci alla saggezza di coloro che tutto sanno per aver tanto, e tanto a lungo, sperimentato la dura lezione del potere fine a se stesso.
Dunque, è normale e persino doveroso che in tanta profusione di consigli non richiesti ed ardite quanto improbabili ricostruzioni di manovre oscure tessute da perfidi ed inquietanti  burattinai, il grigio veggente si dimentichi - ops, sarà l'età - di menzionare sia pure di striscio il lungo elenco dei propri disastri, compreso il rapidissimo inchino a Cofferati con cui bloccò la propria stagione riformista, durata circa un mese. Ed è ancora più normale, anzi scontato, nella logica furbetta e tranchant che da sempre lo distingue, che eviti di ricordare i lunghi decenni della sua permanenza al potere, la sua innegabile connivenza con una interminabile stagione politica che blocco dopo blocco, compromesso dopo compromesso, rinvio dopo rinvio, concertazione dopo concertazione, trattativa dopo trattativa, è culminata, anzi precipitata, nel disastro economico e sociale che ci sta divorando.
Va capito, poveruomo, altrimenti non potrebbe esercitare tutto il sacro furore del suo sdegno morale verso il Nuovo, l'usurpatore, il barbaro invasore che avrà molto difetti ma certo non responsabilità nella pesante eredità dello sfascio che oggi si trova a dover gestire. E questo, la vecchia volpe lo sa, agli occhi degli elettori è fattore dirimente, e pesa assai, conviene dunque tentare di giocare ancora la vecchia carta del saggio consigliere, dimenticandosi di dire quanto è logora e, soprattutto, bollata per sempre col marchio della inadeguatezza alla sfida.
D'altronde, in questo gioco dei vuoti di memoria è in buona compagnia, con Bersani che gli fa eco e ripropone ad ogni piè sospinto la retorica della Ditta, fantomatica Spa costituita dalle innumerevoli correnti interne del Pd, da lui presieduta con gli stessi toni e la stessa rassegnata operatività del liquidatore fallimentare chiamato a chiudere il meno dolorosamente possibile una impresa in perdita netta. Con tutta la dovuta attenzione a non urtare i suscettibili titolari, responsabili di disastri epocali ma tanto sensibili, poverini, al lato umano della solidarietà tra perdenti. Quello del "negare tutto, negare sempre" in nome del bene comune che corrisponde inevitabilmente a quello della tutela della propria immagine di pseudo-statisti, reale o virtuale che sia.
E certo, visto da fuori, colui che ha portato il Pd al punto più basso della propria storia, in termini di voti e di fiducia dell'elettorato, e si è fatto trascinare per due mesi nella via crucis della inesistente trattativa con i grillini prima di finire impallinato dal fuoco amico in Parlamento, pare il meno indicato a dare consigli e addirittura a porre out out a chi gli è succeduto con un consenso vasto, forte e trasversale che, ad oggi, non accenna a scemare. Riconosciutogli da quelli stessi elettori che, a quanto pare, sono meno inclini all'oblìo di quanto si pensi e riescono ancora a dare con precisione un nome ed un cognome a decenni di promesse mancate, rimangiate, rinnegate, dimenticate, in nome della Ditta, dell'unità a sinistra, dell'equilibrio fra correnti, della non belligeranza con le parti sociali, della sostanziale immobilità buona a galleggiare ma non a uscire vivi dalla tempesta.
Ed oggi che questi superstiti combattono la battaglia della vita, o meglio, della sopravvivenza, l'ultima, la più sanguinosa, quello che colpisce davvero non è neanche la cieca ostinazione con cui difendono l'indifendibile, nè la livorosa incapacità di riconoscere i propri madornali errori, ma l'ottusa pervicacia con cui restano attaccati ad un mondo che è finito da decenni, ad un linguaggio che nessuno, tranne loro, è in grado di comprendere, a riti e liturgie che erano già consunti quando costoro hanno iniziato a praticarli, ma soprattutto ad una visione delle cose che è del tutto svincolata dalla realtà e dalla contemporaneità.
Sono apocalittici e reintegrati, vuoti a perdere già risucchiati nel passato dove ancora tentano di ricacciare anche noi, in preda ad un cupio dissolvi che basterebbe da solo a farci prendere per sempre le distanze da chi, pur di salvare se stesso e la costruzione fasulla del proprio mito personale, è capace di sacrificare quel che resta della capacità di sopravvivenza di questo paese.
Sono Maestri, sì. Di distruzione.

ChiBo

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