sabato 27 giugno 2015

Per tacere della Costituzione.....

Nel gran circo mediatico immediatamente andato in scena subito dopo la sentenza della Corte Suprema statunitense che ha stabilito la marriage equality, i Social hanno naturalmente fatto la parte del leone, permettendoci di comprendere con lodevole chiarezza il gioco delle parti in causa.
Nella fattispecie, esponenti a vario titolo - personale o lobbistico - del variegato mondo che ruota intorno al Family Day, alle Sentinelle in piedi, e ad altre organizzazioni militanti di stretta osservanza cattolica, si sono tutti distinti per un particolare che la dice lunga, anzi lunghissima, sulla questione di fondo, mai dichiarata apertamente ma di fatto praticata con ogni mezzo, che realmente li separa per loro stessa volontà dal resto del mondo.
Lanciandosi infatti nel solito repertorio di anatemi contro il conformismo a presunte mode moderniste e l'altrettanto presunto strapotere della Lobby Lgbt, costoro hanno accuratamente evitato di commentare, o anche solo nominare, il principio che ha invece ispirato la sentenza della Corte Suprema, ovvero il rispetto della Costituzione americana che dichiara tutti i cittadini uguali nei loro diritti individuali sacri ed inviolabili, e dunque non consente discriminazioni di alcun genere che costituirebbero una palese violazione di tale principio di eguaglianza. Questo in un paese che sa benissimo a quali abusi abbia portato il mancato rispetto di quel principio, dallo schiavismo alla segregazione razziale, ed ha imparato dai propri errori a capire che il diritto è tale solo se vale per tutti, altrimenti si riduce a privilegio di pochi a danno di tutti gli altri.
Ora, lo "scandalo" su cui i nostri paladini della "verità" tacciono accanitamente - dimenticandosi di qualcuno che pure disse "oportet ut scandala eveniant" - è tutto qui, ovvero nel richiamo e nel rispetto della Carta Costituzionale da cui essi, e non da ora, si chiamano fuori, come se essere cittadini appartenenti ad una comunità che si è data regole e principi condivisi atti a tutelare tutti, e non solo alcuni, fosse cosa del tutto secondaria se non addirittura accessoria, nelle loro esemplari vite di testimonianza dell'esclusività.
L'approccio al tema della omosessualità è del resto la prova evidente di questo sentire, derivante dalla appartenenza ad una fede religiosa che si configura come una conventio ad excludendum che ragiona in senso diametralmente opposto a quello seguito dal diritto. Ovvero: io ti accolgo - e si ragioni sulla sottile ma dolente differenza fra accogliere ed accettare - solo a patto che tu rinunci a vivere secondo ciò che sei, che tu accetti di vivere in eterna castità e dunque privo per sempre di una vita affettiva, sulla base del presupposto che sei programmato all'errore perchè diverso dall'eterosessuale. Quindi, una accoglienza basata non sulla accettazione, che è l'unica vera caratteristica dell'amore, ma sulla limitazione. Una accoglienza condizionata, basata oltretutto sulla arrogante e proterva convinzione di poter decidere della vita di una persona fino al punto di negargli di esprimere appieno la propria affettività, considerata un "peccato".
Ora, sarebbe oltremodo facile sottolineare il paradosso per cui questi stessi ortodossi esegeti del verbo divino scendono in piazza, reclamando a gran voce i diritti loro spettanti come famiglie tutelate dalla Costituzione, intanto che non hanno alcun rispetto di quella stessa Carta che, prima di tutto - e giova ripeterlo, prima di tutto - stabilisce l'uguaglianza dei cittadini nei diritti che invece costoro son così pronti a negare, sovrapponendo le loro personali convinzioni religiose a quelle dello stato e pretendendo anche di averla vinta. Sognano uno stato confessionale dove poter rappresentare se stessi come i migliori e dunque i decidenti, a scapito di tutti gli altri, marchiati come imperfetti e dunque marginali. Anime semmai da redimere, purchè disposte a negare se stesse, ma mai in nessun caso da riconoscere eguali.
Lo strumento, per quanto imperfetto, della democrazia è ciò che ci ha permesso, dopo un lungo, faticoso, doloroso e sanguinoso cammino attraverso secoli di storia, disseminato di abusi, sopraffazioni, discriminazioni e vessazioni di ogni genere, di arrivare a stabilire una Carta dei diritti dell'uomo e di avere Costituzioni che, prima di tutto, stabiliscono il rispetto di questi diritti per tutti, non solo per alcuni. Una società fondata sulla diseguaglianza e sulla discriminazione poggia sull'esclusione, fomenta l'odio e l'intolleranza, tutte cose che abbiamo sperimentato per secoli e di cui abbiamo potuto toccare con mano tutte le nefandezze prodotte. Negare oggi le ragioni basilari del principio di eguaglianza dei diritti, non è dunque solo una battaglia di retroguardia, che potremmo persino guardare con indifferenza, ma implica qualcosa di più profondo e pericoloso, una sorta di schedatura genetica, una rigida contrapposizione fra "normali" ed "anormali" dove, peraltro, solo i "normali" hanno scritto le regole mentre gli altri non hanno alcuna voce in capitolo.
Oltretutto, secondo una dottrina che, nei secoli, sia pure con estrema lentezza, emenda se stessa dai propri colossali errori, attraverso questa pratica introdotta dagli ultimi Papi ovvero quella del chiedere perdono, per quanto tardivo, a coloro che furono perseguitati, discriminati, uccisi, in nome di principi un tempo ritenuti sacri e che oggi risultano invece palesemente errati ed insostenibili.
Il che non esclude che, fra qualche secolo, un Papa possa chiedere perdono anche agli omosessuali per aver negato i loro diritti individuali e, peggio, di poter vivere una vita affettiva invece della castità a vita imposta come condizione vincolante per essere accolti - accettati, no. Ad oggi, non possiamo saperlo, neanche i valdesi, probabilmente, avrebbero mai creduto di sentirsi chiedere perdono, prima o poi, cosa che invece è accaduta, anche se con sette secoli di ritardo.
E mistificare la battaglia contro i diritti individuali per una battaglia in difesa della famiglia cosiddetta "naturale" è solo l'ennesima dimostrazione di quali scorrettezze si sia disposti a mettere in campo. Perchè l'uguaglianza nei diritti individuali precede ogni altra configurazione sociale, ed attaccarla come espressione di meschino individualismo, cavallo di battaglia caro agli integralisti di casa nostra, serve solo a comprendere meglio il nocciolo della questione, ciò che da sempre fa più paura ai fondamentalisti di ogni genere ovvero: la libertà di scelta che ognuno di noi possiede e che è la vera ed unica discriminante per distinguere una democrazia da un regime.
Si è liberi di scegliere se avere o meno una fede religiosa - e se ne hai una, la tua libertà di praticarla è garantita - si è liberi di scegliere di amare e chi amare, ma soprattutto si è liberi davvero solo se questa libertà appartiene a tutti in egual misura, attraverso i diritti fondamentali che rendono ognuno di noi uguale altri altri nella tutela della propria libertà di scelta.
Va da sè che questa opzione è pericolosissima, perchè ci emancipa dal ruolo di minus habens bisognosi di stare sotto tutela altrui e di essere guidati, e ci impone la responsabilità più grande, ovvero quella di gestire la nostra libertà di scelta da soli, e di farlo con consapevolezza e senso del rispetto verso le libertà altrui. Ma senza questa enorme responsabilità, di cui vorrebbero privarci costoro che sostengono amorevolmente di farlo per il nostro bene - lo stesso per cui misero in piedi l'Inquisizione - saremmo solo burattini eteroguidati, incapaci di decidere da soli cosa fare delle nostre vite, condannati a seguire un copione già scritto da altri e senza alcuna possibilità di uscirne.
Quindi, se c'è una ragione per rallegrarci della sentenza della Corte Suprema statunitense, questa sta, prima ancora che nel contenuto che ha espresso, nell'averci ricordato il valore fondamentale di una Costituzione che riconosce tutti i cittadini uguali in virtù degli stessi diritti. E chiunque intenda affrontare un dibattito su qualunque tema prescindendo o censurando o dimenticando o, peggio ancora, condannando questo principio come espressione di individualismo, non è solo in malafede ma procura un danno a tutti noi, negando il fondamento necessario ed imprescindibile che ci permette di vivere in una comunità dove ognuno è diverso in ciò che è ma è uguale in ciò che può fare, decidere, avere, costruire, scegliere.

ChiBo

P.s qualche tempo fa, la sottoscritta ha avuto una interessante discussione in tema di diritti con una coppia, marito e moglie, oggi attivamente inserita nelle Sentinelle in Piedi. A proposito dell'imposizione agli omosessuali della castità come vincolo per essere accolti nella Chiesa, essi mi risposero che è lo stesso vincolo imposto a tutti. Dunque, chiesi loro se fossero arrivati vergini al matrimonio, in perfetta coerenza con i loro principi. La levata di scudi fu immediata, certo che non si erano sposati vergini, e la motivazione data meravigliosa: "ah vabbè, su questo la Chiesa deve aggiornarsi, lo sappiamo". Ecco, perbacco, per la castità degli eterosessuali bisogna aggiornarsi, per quella degli omosessuali no. Tutto chiaro?!

lunedì 1 giugno 2015

Destra senza centro, Pd senza sinistra

Sarebbe buona cosa provare a ragionare sui risultati di questa tornata elettorale invece di ridurli al solito destino della coperta tirata da troppe parti, e dunque alla fine destinata a non coprire nessuno. Al di là del solito diluvio di dichiarazioni, spesso vaneggianti, e di interpretazioni del tutto infondate di numeri che, in quanto tali, alla fine più di tanto non possono essere relativizzati e quindi sminuiti nel tentativo di piegarli alle diverse cause, alcune considerazioni paiono essere evidenti.
Destra senza centro: per quanto Toti si sia subito affannato a dichiarare che non si presterà ad una lettura della sua vittoria in termini di numero di voti portati alla coalizione dai singoli schieramenti che la compongono, è innegabile che in Liguria, come nelle altre sei regioni in cui si è votato, il risultato lo abbia fatto Salvini insieme alla Meloni, mentre Forza Italia è in preda ad un inarrestabile deflusso di voti. Dunque, sparisce il centro e si afferma la destra, una destra marcatamente antieuropeista, xenofoba, populista e nazionalista che ha fatto una campagna elettorale  urlata e becera, volta ad amplificare ed addirittura sollecitare il malpancismo generico e le paure sociali senza portare, sia chiaro, alcuna risposta concreta in termini di progetto politico. Il che paga sul momento, ma pone interrogativi sul medio e lungo periodo, soprattutto pensando alle prossime elezioni politiche dove, con la nuova legge elettorale, non ci saranno colazioni ma liste singole.
Dunque, il problema a destra è chiaro e di non facile soluzione, perchè stando così le cose, con Forza Italia in dissolvimento, la lista unica dovrebbe giocoforza prevedere Salvini candidato premier e tutti gli altri dietro a lui. Difficile però immaginare una tale dissoluzione del fu centrodestra in un'unica formazione di destra che non ha nulla di moderato e che invece, per avere almeno una chance di vittoria, dovrebbe avere la capacità di attrarre i milioni di voti persi da Forza Italia. Da questo punto di vista, politicamente parlando, la difficoltà più grande sta tutta a destra, e per quanto Salvini oggi faccia il gradasso, affermando di essere l'unica alternativa a Renzi, in realtà con i numeri che ha raccolto a livello nazionale deve prima vedersela con i Cinquestelle, che potrebbero anche andare al ballottaggio alle politiche, ma prima ancora deve riuscire a trovare una formula - ad oggi francamente inimmaginabile - per tenere insieme tutte le forze della sua parte.
La questione è spinosa: se annacqua il suo messaggio, per tentare di rendersi gradito all'elettorato moderato, Salvini rischia di perdere terreno a destra, ma se continua a spingere sul pedale del più becero populismo, resta fermo ai numeri di oggi ed oltre non va. Trovare la quadratura del cerchio è dunque il suo vero e gravoso compito, a dimostrazione che quando si spinge sugli estremi poi è difficile tornare indietro e recuperare credibilità su un terreno meno incline alle urla e più sensibile alle proposte argomentate.
Pd senza sinistra: di segno opposto, e quindi speculare, la situazione a sinistra, dove il Pd si conferma comunque il partito trainante, mentre la sinistra alla sua sinistra, dove si è presentata, ha raccolto numeri buoni solo a fare danni, non certo a vincere, con buona pace di Civati che vede praterie dove invece ci sono solo sentieri sempre più stretti per coltivare livori personali, rese dei conti interne e rendite di posizione sempre più esigue. Significativo in questo senso il 6,28% raccolto in Toscana dalla lista della "vera sinistra" che pure prometteva sfracelli a discapito del Pd.
Ma una lettura critica ed analitica di questo risultato va fatta, ed è tutta interna alle scelte del Pd, da cui ci si aspettava, con buona ragione,  candidature che marcassero  con evidenza il rinnovamento della classe dirigente sui territori invece della riproposizione di volti e nomi provenienti dalle precedenti legislature oppure, come nel caso della Moretti in Veneto, il frutto di un calcolo sbagliato fatto sull'esito del voto alle europee di un anno fa.
Ora, sarebbe ridicolo - anche se in queste ore è un luogo comune ampiamente abusato - negare l'evidenza dei numeri; in dodici mesi, in due tornate di elezioni regionali, il Pd si è aggiudicato dieci regioni su dodici, e giova ricordare che invece si partiva da una situazione di sei a testa, con buona pace della Ditta delle non vittorie, quindi la segreteria di Renzi, da questo punto di vista, può essere senza dubbio considerata vincente.
Ma è fuor di dubbio che il rinnovamento sui territori è ancora un progetto da costruire e da realizzare, mentre, per contro, giunge un messaggio forte e chiaro dagli elettori, ovvero che le rendite di posizione non pagano più, che le candidature nate per consuetudine, appartenenza e cooptazione hanno fatto il loro tempo e non sono più garanzia di successo, anzi, al contrario, suscitano insofferenza nel loro manifestare continuità con il passato e producono sconfitte che lasciano il segno. Il caso della Paita, in Liguria, ma anche la faticosissima riconferma della Marini, in Umbria, sono segnali nettissimi e non ignorabili della necessità di lavorare molto ed in profondità sulla costruzione di una nuova classe dirigente.
M5S: ha fatto una campagna elettorale lasciando a casa Grillo, segno che la batosta di un anno fa alle europee ha lasciato il segno e, forse, ha anche insegnato qualcosa in termini di mera condotta politica sul campo. Resta però un dato di fatto: gli argomenti usati dai grillini, a cominciare dal cavallo di battaglia del reddito di cittadinanza, dati in pasto agli elettori senza fornire alcun dato certo su eventuali coperture finanziarie di tali operazioni, hanno il fiato corto e le gambe ancora più corte, come insegnano le loro esperienze di governo locale, dove sono stati sconfessati proprio sui temi che li avevano fatti vincere, un caso per tutti la storia dell'inceneritore a Parma. Dunque, questa fase apparentemente più matura del movimento - che peraltro in Parlamento continua a dire di no a tutto, tenendo congelati da due anni i propri voti - dovrà dare tangibili riscontri di una accresciuta consapevolezza politica per nutrire ambizioni di governo, e giova ricordare a quelli che oggi cantano vittoria che, in tutta evidenza, non esiste una regione governata dal M5S, dunque la vittoria per ora è da rimandarsi ad un futuro che, forse, potrebbe persino vederli al ballottaggio, se a destra non si creasse una lista unitaria, ma difficilmente li premierebbe in termini di effettiva credibilità come forza di governo.
Astensionismo: le ultime tornate elettorali hanno evidenziato che anche in Italia, sia pure con molto ritardo rispetto alle altre democrazie occidentali, si è manifestata una grande mobilità dei flussi elettorali. Il voto identitario che ha caratterizzato la Prima Repubblica, la contrapposizione tribale della Seconda Repubblica, sono finiti lasciando cumuli di macerie sotto forma di disaffezione ai partiti e di patente mancanza di credibilità della politica agli occhi degli elettori. In questo quadro, due cose risultano palesemente ridicole: che i rappresentanti delle passate stagioni ancora in attività siano quelli che alzano i lamenti più alti sul dato astensionistico, invece di fare mea culpa e riconoscere le proprie gravissime responsabilità nell'aver creato questa frattura con gli elettori; che si ignori l'astensionismo quando fa comodo - tipo esaltare Podemos senza dire che in Spagna ha votato il 49% degli aventi diritto - e lo si agiti come spettro di una crisi della democrazia quando invece si tratta di coprire le proprie responsabilità nell'averlo creato. Anche da questi espedienti di piccolissimo cabotaggio passa il giudizio di una classe politica fallimentare da cui i cittadini, non votandola, prendono le distanze.

ChiBo

domenica 1 marzo 2015

Il bluff di Salvini

Dovremmo essere grati a Salvini, ed a coloro che hanno condiviso con lui il palco della manifestazione romana, per averne fatto una plastica dimostrazione di ciò che sosteniamo da tempo, ovvero che tali esibizioni tardocarnascialesche, a metà tra la gara di insulti dell'asilo e la sfida per la miglior mascherata fascioleghista, con contorno di scempiaggini sparate in libertà, non possono in alcun modo essere considerate una forma di autentica e autorevole opposizione politica.
Spacciare Salvini per oppositore riconosciuto del governo Renzi, equivale a rendere un pessimo servizio all'informazione ma, prima ancora, alla corretta lettura dello stato di salute della nostra vita politica, che non sta benissimo, a dire il vero, proprio per una evidente quanto preoccupante mancanza di quel sano ed indispensabile bilanciamento democratico rappresentato da una opposizione ben condotta che costituisce il primo e più importante cane da guardia della democrazia.
In realtà, con quella furbizia da Bertoldo che gli è tipica, Salvini ha messo in piedi in tempi rapidi una manovra molto più facile, e dunque destinata ad essere efficace sul breve periodo ma poco incisiva su quello medio-lungo, applicando alla lettera gli insegnamenti che la vecchia politica italiana ha seguito per decenni. Ha piantato per primo una bandierina su quel terreno ingombro di macerie che è oggi, ma non da oggi, il centrodestra italiano, costruendosi di fatto una rendita di posizione che, al momento, per manifesta inesistenza di altri concorrenti, gli frutta la facile nomea di oppositore, senza peraltro aver fatto alcunché o prodotto alcuna tangibile dimostrazione di meritarsela davvero.
Ha occupato uno spazio vuoto, e lo ha fatto a colpi di sparate demagogiche e populiste,  costantemente amplificate dalla sua onnipresenza mediatica, tanto da convincerci che Salvini esiste perchè parla, se tacesse per più di un giorno ci dimenticheremmo della sua esistenza, vista la sostanziale inessenzialità della sua azione politica. Azione che, per esser tale, o quantomeno coerente con quanto predica, lo vedrebbe impegnato al Parlamento europeo, dove si è fatto eleggere promettendo sfracelli, salvo poi non recarvisi mai, raggiungendo vette di assenteismo senza precedenti. E, contemporaneamente, lo impegnerebbe nella seria costruzione di un programma alternativo e convincente a quello di governo, non solo mirato all'opposizione costruttiva ma soprattutto in vista di un vero confronto politico che, presto o tardi, avverrà con le prossime elezioni politiche.
Invece Salvini non fa nulla di tutto questo, si limita a stare piantato nel deserto della destra italiana, a fare calcoli di piccolo cabotaggio, togliendo qua qualche voto al declinante Grillo, recuperando là qualche elettore da compagini estreme e di nicchia, ma consapevole che il grosso del serbatoio elettorale del centrodestra, quel voto moderato che ha sempre premiato Berlusconi, è destinato a sfuggirgli, ora e sempre, non avendo alcuna vocazione per il becerume sguaiato ed urlato di cui il leader leghista tanto invece si compiace.
È una operazione furba, strategica, e di corto respiro. Ma vale una rendita di posizione acquisita ed in questo momento non contendibile da altri, che fa di Salvini un leader per mancanza di alternative, il che è esattamente ciò che gli interessa essere oggi. Consapevole che un domani, in un confronto serrato da campagna elettorale, le scempiaggini spese a piene mani non gli saranno sufficienti, perchè prima o poi dovrà pur fornire qualche dato, qualche pezza d'appoggio a sostegno delle sue strampalate teorie, cosa che oggi rifugge sistematicamente dal fare, e che questo lo inchioderà alla propria vacuità, ma intanto sarà comunque il primo ad aver piantato quella bandierina sulle macerie, e tanto gli basterà non per vincere, chè non ha alcuna chance di farlo, ma certo per mantenere con poca fatica e nessun costrutto il ruolo di primo ed unico oppositore.
Con grave danno per la nostra democrazia, perchè un Salvini leader di opposizione non garantisce nè un sano bilanciamento nè, soprattutto, una azione costruttiva e positiva di controproposta politica tale da produrre una ricaduta benefica sulla nostra asfittica vita politica e parlamentare.
E di questo, ancora una volta, dobbiamo ringraziare la scellerata gestione cesaristica e mai lungimirante che Berlusconi ha fatto del suo immenso patrimonio di voti, alimentando con se stesso la illusoria convinzione della propria eternità in vita e della propria insostituibilità, uccidendo in culla ogni possibile erede del suo primato, costruendo un partito di cortigiani e non di teste pensanti, ed impedendo per vent'anni ogni possibile via di crescita del centrodestra italiano.
Salvini è l'ultimo regalo che Berlusconi ci lascia, un derivato tossico che non ha alcuna stretta utilità politica, un frastuono che copre il silenzio ma certo non lo colma di contenuti. E se fossimo nei panni del suo residuo elettorato, questa sarebbe certo la colpa principale che gli faremmo oggi, smettendo di nascondersi ancora dietro la stanca novellina del povero perseguitato e riconoscendo una volta per tutte il terrificante filotto di errori commesso in vent'anni di dissipazione scellerata di un patrimonio politico enorme.
Intanto, stando così le cose, non abbiamo e continueremo a non avere una opposizione degna di questo nome, ma soprattutto del suo ruolo, in Italia. Il che assicurerà lunga vita a Salvini, ma ancor di più lunga vita a Matteo Renzi.

ChiBo

lunedì 23 febbraio 2015

L'Oscar della supercazzola goes to...

La sindrome della sconfitta dissimulata, altrimenti nota come teorema della supercazzola prematurata con scappellamento a sinistra - solo perchè a destra, di questi tempi, non sanno più da che parte inchinarsi - produce sempre nuovi profeti, pronti a lanciare formule vaghissime e possibilmente senza senso alcuno solo per distrarre l'attenzione dalla propria comprovata inutilità. Maestri della narrazione del nulla, alcuni specializzati nello spettacolare rovesciamento di fronte - di solito, il proprio, prima sostenuto a spada tratta e poi testè rinnegato con invidiabile faccia di tolla - si sfidano ormai da decenni sul palco polveroso e logoro della politica italiana, ma è indubbio che negli ultimi tempi abbiano dato il meglio di sè, costretti come sono, dall'incalzare di eventi infausti che li vedono, chissà come mai, sempre dalla parte sbagliata, a continue acrobatiche capriole per smentire se stessi.
L'elenco degli esempi sarebbe lunghissimo, ma certo gli ultimi giorni sono stati particolarmente ricchi, tanto da richiedere un breve riepilogo per non perdersi nella ripetuta ed insistita azione di florilegi verbali che, in un attimo di distrazione, metterebbe chiunque a rischio di dubitare della propria sanità mentale. In sintesi, le nomination ed i vincitori all'Oscar della supercazzola prematurata:
Miglior cast: i Kalimera Brothers, meglio noti come la Compagnia della sconfitta assicurata. Accorsi in massa a sostegno dell'eroe greco, in meno di un mese ridotti al silenzio dall'inevitabile risultato dell'incontro-scontro fra Tsipras e la realtà, che ha visto la seconda nettamente vincitrice. A conferma che sparare panzane è facilissimo, ma governare è tutt'altra cosa, ed i programmi elettorali basati su promesse inattuabili non son più tanto di moda in tempi di vacche magre e debiti non più incoscientemente spalmabili sulle incolpevoli generazioni a venire.
Miglior attore non protagonista: colpo di scena con un ex equo, meritatissimo peraltro. Impossibile scegliere fra Civati, ormai messo in minoranza persino dalla minoranza tanto da rischiare di doversi fare opposizione da solo, e Fassina, che quando stava al governo con Letta dichiarava "le riforme si fanno con chi ci sta" ed oggi, dopo aver vomitato ettolitri di veleno sul patto del Nazareno, sostiene invece che "non si fanno le riforme da soli". La vera dannazione di entrambi, è di essere ormai buoni solo per i pastoni della giornata politica, gli sfottò sui Social e i titoli di quei geni di lercio.it ma totalmente ininfluenti sul piano politico. Comprimari per nascita, non protagonisti per totale mancanza di idee.
Miglior sceneggiatura: un autentico maestro dello storytelling, ovvero Gianni Cuperlo, il cui genio letterario ha partorito il miglior canovaccio politico a scoppio ritardato che si sia mai visto da queste parti. Il suo "bisogna ricucire con Forza Italia" all'indomani della rottura del patto del Nazareno, da lui fin lì collocato appena un filino sotto la cacciata dal Paradiso nella hit parade delle disgrazie capitate al genere umano, apre di diritto un nuovo filone narrativo, il "tutto e il contrario di tutto", per cui è già possibile prevedere un grande futuro alle riunioni del Circolo dei fulminati. Quelli che vivono al buio e pensano che la realtà sia un mero accidente da poter ignorare, basta spegnere la luce e dire "non l'avevo vista" perbacco.
Miglior attore protagonista: un solo nome, un solo vincitore, quel Landini sconfessato dai suoi stessi "protetti" che hanno preferito lavorare per sostenere la ripresa della propria azienda invece di scioperare, a Melfi come a Pomigliano d'Arco, a dimostrazione che le chiacchiere non fanno farina e non mantengono famiglie, il lavoro invece sì. E come ogni eroe, sconfitto ma non domo, che si rispetti, il nostro combattente delle cause perse si rilancia subito con un progetto meraviglioso, formare una "coalizione sociale per combattere democraticamente il governo Renzi" che non si sa che cosa sia, nè dove dovrebbe collocarsi, ma certo ha già vinto il premio per la miglior supercazzola con scappellamento a sinistra degli ultimi anni. Non sarà un partito nè un sindacato, ha chiarito da par suo Landini. Ecco, appunto, come se fosse antani.

ChiBo

lunedì 9 febbraio 2015

Moto, debiti e sex appeal

Quel gran genio del mio amico, con le mani sporche d'olio, è uscito dall'officina, è salito in moto ed è andato al governo. Chè in tempi di politica liquida, si sa, i quindici minuti di celebrità non si negano a nessuno. E nella compagine ad alto tasso di testosterone messa insieme da Tsipras - le donne, in Grecia, pare siano in pausa di riflessione dopo il casino combinato con la guerra di Troia - ci voleva un macho di pelle vestito a ricoprire il ruolo del vendicatore degli oppressi. Era dai tempi di Achille, che non si vedeva un eroe delle cause perse votarsi impavido a tale disperata impresa.
E quindi, eccolo qua, il nuovo sex symbol della Rete, è bastato che si presentasse a Downing Street con la camicia di fuori, di un blu elettrico atto a sottolineare il gesto ribelle, per di più, e con i bikers borchiati a suggerire che lui, in Inghilterra, c'è andato a cavallo della moto, mica in aereo, per scatenare l'ormone sonnolento del Vecchio Continente, rimasto fermo alla camicia bianca della new generation del Pse e del tutto impreparato alla botta adrenalinica dell'economista palestrato. Yanis Varoufakis è diventato di colpo il miglior prodotto da esportazione, e forse anche l'unico, a dire il vero, che la Grecia abbia mai avuto dai tempi delle navi triremi e degli otri di terracotta.
Il che deve avergli dato leggermente alla testa, spingendolo ad abbandonare ogni cautela ed a lanciarsi in dichiarazioni avventate quanto roboanti, come si conviene al nuovo Pelide che non teme nulla se non il proprio sconfinato orgoglio. Dunque, prima ha confidato che il suo paese è già fallito e che non ha di fatto un tessuto nè industriale nè manifatturiero, e poi ha difeso quello statalismo spinto ed indiscriminato che ha partorito l'enorme debito che strangola il paese come unica ricetta possibile per uscire dalla crisi.
Se l'avesse fatto un altro, sarebbe stato inchiodato al proprio paradosso, ma al nuovo sex symbol si perdona tutto. Persino quando, con raro sprezzo del pericolo, ed ancor più del ridicolo, si avventura sulle orme già percorse da Gheddafi a suo tempo, e spara con spavalda arroganza una richiesta di risarcimento alla Germania per un debito risalente a i tempi della seconda guerra mondiale. Ora, questa era l'arma prediletta del furbo dittatore libico che, a cadenze regolari, di solito quando voleva ottenere qualcosa, rilanciava la sua richiesta all'Italia riguardo ai danni della guerra.
Ma lui era Gheddafi, quella sorta di paraculesco incrocio fra Totò sceicco e Moira Orfei vestito da uno stilista in vena di eccessi psichedelici, dunque ci faceva ridere, come fanno ridere tutti i dittatori quando esibiscono l'irrestibile debolezza della loro vanità mai mitigata da una sana e democratica ironia, che richiede libertà per essere esercitata.
E dunque dovrebbe farci ridere anche Varoufakis, se non fosse che quella sua allure da selvaggio 2.0 con cui si è candidato al ruolo di nuovo Marlon Brando ne ha già fatto un'icona fashion, sexy e tremendamente radical chic nel gran circo della comunicazione da Social, sempre in cerca di immaginette da venerare per mascherare la propria intrinseca debolezza di pensiero.
Certo, la sua somiglianza con Checco Zalone è inquietante, ma infine ci rassicura. È un bravo ragazzo, dai, prima o poi scenderà dalla moto e si comprerà anche lui una station wagon. Tedesca, naturalmente.

ChiBo

sabato 31 gennaio 2015

Vincitore e vinti

L'ha fatto di nuovo. Ha spiazzato tutti, ha calato l'asso al momento giusto, soprattutto ha dimostrato doti di grande strategia politica, essendo uscito vincitore con una sola mossa perfetta da quello stesso Parlamento - stesso per traballante composizione e balzani umori - che seppellì Bersani alla prova delle elezione del Presidente e, contestualmente, archiviò definitivamente e nel peggiore dei modi la sua carriera politica. Comprensiva di tutte le ambizioni di cui era fatta.
Oggi, dall'elezione di Sergio Mattarella si evince un quadro chiarissimo e di univoca lettura, cosa rara, forse addirittura unica, in un paese in cui, in politica, tutti si dicono sempre vincitori ed il confine fra vittoria e sconfitta resta quasi sempre indeterminato e propizio a qualsiasi valutazione effimera e di parte. Oggi no, oggi la situazione è netta, anche per coloro che ancora non l'hanno capita, o fingono di non averlo fatto, e dunque si può riassumere così:

Vinti:
1- Grillo e M5S. La disastrosa conduzione di quest'ultima prova, ha certificato con estrema chiarezza, se ancora ce ne fosse bisogno, la loro sostanziale inutilità politica. L'isolamento autistico ed autoereferenziale in cui si sono volontariamente chiusi sin dall'inizio della loro avventura parlamentare, l'assenza di qualsiasi strategia politica unita alla evidente incapacità di elaborarne una, hanno prodotto soltanto il congelamento sterile dei voti - e sono tanti - e dunque degli elettori che dovrebbero rappresentare. Il balocco della consultazione popolare in Rete si è rotto per sua stessa intrinseca fragilità, la sola trovata di resuscitare fra i candidati Prodi, colui che ci portò dentro quell'euro dal quale i grillini vogliono uscire, ha testimoniato la pochezza di ragionamento, la debolezza fatale di un movimento che non ha teste pensanti ed ha esaurito la breve portata malpancista che lo aveva partorito. La discesa è già iniziata, le continue espulsioni, le scissioni avviate a livello territoriale, sono già in atto, ma ad oggi pare impensabile che si registri una ripresa in termini di credibilità politica per una forza che, fuori dall'urlo becero e dalla sparata populista, non ha saputo fin qui produrre una sola buona ragione della propria esistenza parlamentare.
2- dissidenti del Pd- i Kalimera Brothers cercavano il Papa straniero, senza aver mai capito di averlo già in casa. Come loro solito, hanno preso fischi per fiaschi, votando convinti Mattarella come prova vivente della fine dell'osceno Patto del Nazareno, oggetto dei loro incubi peggiori e delle loro presunte battaglie contro la deriva di destra a loro dire imposta da Renzi. Ora, da gente che non ne ha azzeccata una, e che coltiva da sempre una relazione stabile con la sconfitta, non si può pretendere una capacità anche basica di analisi politica, ma siccome qui siamo di buon cuore, gliela offriamo gratis al prossimo capoverso, sperando che impedisca loro di cadere dal pero al prossimo riprendere del patto per le riforme.
3- Berlusconi - Uno che non impara mai dai propri errori. Ha pensato di fare il furbo annunciando che la nomina del Presidente era compresa nel patto del Nazareno e non si è preoccupato della smentita - una, sola, secca - di Renzi. Ha creduto addirittura di poter recuperare l'antico rapporto di padronanza con senza quid Alfano, e di avere forza sufficiente a vincere una partita in cui, invece, ha sbagliato tutto sin dall'inizio. Dal primo grave errore, ovvero aver sottovalutato Renzi ed aver creduto che le divisioni interne al Pd fossero più gravi e soprattutto insuperabili di quelle di Forza Italia. Si è ritrovato col cerino in mano, il suo partito ancora più frammentato rispetto a pochi giorni prima, isolato in una debolezza che gli rende impossibile qualsiasi vera mossa ulteriore. Non può più andare all'opposizione, non sarebbe assolutamente credibile rispetto ad un Salvini che, comunque la si pensi sul personaggio, almeno ha tenuto ferma la sua posizione di avversità al governo Renzi. E non può uscire dal patto delle riforme detto Nazareno, perchè perderebbe l'ultima possibilità di ritagliarsi, almeno, un piccolo ruolo di padre della patria, sia pure all'ombra di Renzi. Non ha alternative, e chiunque pensi, dica e scriva che il patto del Nazareno è morto non sa quello che dice, oppure fa finta di non saperlo.
4- i luoghi comuni su Renzi. La lista è lunghissima: babbeo, ebetino, renzuschino, berluschino, ignorante, cazzaro, privo di idee, privo di strategie....continuate pure e scusate se ne manca qualcuno all'appello. La mossa perfetta, una ed una sola, con cui Renzi ha giocato e vinto la delicatissima partita del Quirinale, certo la prova più dura politicamente parlando, cui sia stato fin qui chiamato a rispondere, dimostra una volta per tutte come mai tutti coloro che, nel corso degli anni e nelle varie fasi della sua esperienza politica, lo hanno sottovalutato, sbeffeggiato e delegittimato con supponente spocchia, siamo stati tutti asfaltati da lui. Nessuno escluso.
Vincitore: uno solo, Matteo Renzi, naturalmente. Che ha capito perfettamente la lezione di due anni fa, che comportò la debacle finale di Bersani, e su quello ha ragionato. Proponendo un nome che mettesse tutti nelle condizioni di non poter non votarlo, invece di cadere nella solita trappola del candidato contro qualcuno ha cercato un candidato a favore di qualcosa, e su quello ha compattato tutti. Lucidamente consapevole che i dissidenti del Pd lo avrebbero votato pensando di fare uno sgarbo a Berlusconi; che il centrodestra si sarebbe ulteriormente spaccato ma mai allontanato troppo da lui, per l'intrinseca debolezza delle sue varie e velleitarie componenti; che nei confronti del paese, un Presidente costituzionalista in tempi di riforme istituzionali è davvero un garante degno di fiducia e di rispetto. Ha calcolato tutto, ha taciuto mentre impazzava il toto-nomi, ha smentito con i fatti la presunta intesa segreta del Nazareno, ed al momento giusto ha piazzato la mossa vincente, portando a casa la partita che non si esaurisce con l'elezione di Mattarella ma che certifica un risultato politico clamoroso. Una prova di lucidità e maturità che davvero richiama Machiavelli: golpe e lione, ovvero intelligenza e coraggio. Di questo tempi, uno così, ci serve davvero.

ChiBo

lunedì 26 gennaio 2015

Tsi-nistrati

A saperlo prima, ci saremmo dichiarati tutti greci già da mesi, evitando scontri politici accaniti quanto improduttivi, impasse parlamentari, minacce di scissioni e tutto l'armamentario che la "vera sinistra", quella irrimediabilmente affezionata alla sconfitta garantita, ha messo in campo dopo che alle elezioni del maggio scorso l'altra sinistra, quella inopinatamente finita in mano a Renzi, era invece riuscita clamorosamente a vincere, come mai prima nella propria storia. Una cosa inammissibile, perbacco, non si tradiscono così gloriose e consolidate tradizioni da perdenti.
E dunque, si sono alzate barricate da far invidia ai più ferventi giacobini, che mai ebbero fra le loro fila eroici combattenti del calibro di Mineo e Chiti, per dire, pronti ad immolarsi nella lotta per impedire l'abolizione del bicameralismo perfetto, e l'approvazione di una legge elettorale con soglia di sbarramento e premio di maggioranza, agitando impavidi la bandiera della democrazia in pericolo, minacciata addirittura nella sua stessa sopravvivenza. Intanto che altri giganti del pensiero politico, gente come Civati e Fassina, mica Cip e Ciop eh, denunciavano incessantemente l'orrido Patto del Nazareno per le riforme, e la coalizione di governo con un frammento di centrodestra, come prove sicure e certo scandalose di una deriva leaderista e fascista da contrastare con ogni mezzo.
Eppure, sarebbe bastato evocare Tsipras e la Grecia, possibilmente nella stessa frase, per evitare tutta questa agitazione; se a fine maggio, dopo il sonante risultato delle europee, Renzi avesse fondato la brigata Kalimera, invece di perder tempo ad abolire il Senato, per esempio, oggi dormirebbe fra due guanciali e certo si sarebbe risparmiato mesi di estenuanti diatribe sul nulla.
Perchè la Grecia è la soluzione, e Tsipras il suo profeta. La Grecia che ha un Parlamento monocamerale, una legge elettorale con soglia di sbarramento ed un premio di maggioranza che va al primo partito indipendentemente dalla percentuale di voti presa: ma tutto ciò è bellissimo, democraticissimo, anzi, ma vedi come si sono modernizzati 'sti greci, e non hanno neanche uno straccio di un Chiti a bastonarli perchè due camere sono necessarie - doppi servizi, inclusi, naturalmente.
E questo Tsipras, sì, che è un vero rivoluzionario, perbacco, dice che vuole cambiare verso all'Europa - ah vi sembra di averlo già sentito dire a qualcun altro?! Ma no, ma dai, magari in Italia avessimo uno così. Che vuole uscire dall'euro, ma anche no. Che vuole cancellare il debito, ma poi invece finirà per rinegoziarlo, che trascina le folle e governa da solo - chè leader, in greco, non è mica una parola che odora di fascsimo, per carità - anzi, no, fa l'accordo con la destra antieuropea, ma a questo proposito solo persone di provata e cieca malafede potrebbero sostenere che sia un governo con la destra, e per di più quella modello lepenista-salviniano che invece da noi sta all'opposizione, no, questo è un capolavoro di ingegneria  politica che rovescerà le sorti del mondo e traccerà una nuova via per il progresso di tutti noi.
Insomma, un trionfo, specie quando il consigliere economico di Tsipras ha dichiarato che vuol seguire il modello Renzi, ma questa frase è andato lost in translation nell'euforia dei festeggiamenti, figurarsi se Nichi, Pippo e Stefano, meglio noti come Kalimera's Brothers,  avrebbero mai fatto tanta strada per sostenere uno simile a quello che avevano già in casa loro senza peraltro esser riusciti a liberarsene.
No, la verità è che Tsipras è fortunato perchè gli accordi di Schengen non si applicano ai politici e vige ancora la regola che ognuno debba candidarsi in casa propria. Perchè se gli eroi della brigata Kalimera si fossero candidati con lui, il loro eroe avrebbe perso le elezioni clamorosamente ed ora si troverebbe costretto ad almeno due mesi di trattative in streaming con Civati a fare da pontiere. E da Kalimera a Kalispera, si sa, il passo è breve.

ChiBo  

lunedì 19 gennaio 2015

Cineserie

Grande è la confusione sotto il cielo, diceva Mao, ed avrebbe dovuto aggiungere che anche nella testa dei cinesi le idee, tanto chiare, non sono. Come si è incaricato di ricordarci il Cinese di casa nostra, al secolo Sergio Cofferati, mettendo insieme un campionario di contraddizioni e paradossi di rara complessità persino per le travagliate e non di rado schizofreniche vicende della politica italiana. Oggetto di tanta sofferta analisi, le primarie.
Ora, facendo un passo indietro, bisogna fare un minimo di chiarezza prima di addentrarsi nello strascico dell'ultimo episodio, quello ligure, per ricordare qualche passaggio fondamentale degli ultimi tempi in termini di utilizzo e regole delle primarie che, da strumento formidabile per la crescita e la selezione dal basso di una nuova leva politica, spesso sono diventate invece un campo minato che ha messo a dura prova lo stesso principio democratico che rappresentano.
Il Pd ha il merito di averle introdotte, unica forza politica a farlo nel nostro paese dove regna sovrana la cooptazione sulla base di valutazioni che quasi mai hanno a che vedere con la qualità e molto invece con la subalternità ad un leader, ad una corrente, ad un sistema, ma a questo merito non ha mai voluto dare solide basi, facendo inizialmente ridicole consultazioni con un candidato unico, ovvero la negazione evidente del principio di scelta che muove le primarie, e poi spaventandosi moltissimo delle conseguenze del voto laddove, con fatica e molte lotte interne, si cominciavano ad avere primarie vere, il cui riusato finale andava sempre a danno del candidato ufficiale del partito e premiava puntualmente l'outsider di turno.
Cosa che, all'interno di un soggetto politico solido e strutturato avrebbe naturalmente indotto una sana ed approfondita riflessione su un paio di temi scottanti, ovvero come mai il nostro candidato non è mai quello in sintonia con il territorio, e perchè il nostro elettorato premia invece un outsider, dunque questo avrebbe comportato una analisi del criterio di scelta e valutazione dei propri rappresentanti che, a sua volta, avrebbe determinato un ragionevole e ragionato cambiamento del criterio suddetto. Naturalmente, nel Pd che solido e strutturato non è mai stato, e neanche si è mai avvicinato ad esserlo, si è invece avviato un percorso opposto, ovvero come mettere ogni genere di limitazioni e paletti alle velleità di un elettorato indisciplinato onde evitare il successo di outsider indesiderati e pericolosi, e mantenere così il controllo sui territori amorevolmente affidati, in misura diversa, agli esponenti della quarantina di correnti interne al partito, tutte felicemente aventi diritto al proprio piccolo o grande feudo elettorale. Dunque, al vanto del tutto sterile del "noi siamo gli unici a fare le primarie perchè siamo democratici", non solo non ha fatto seguito una operazione di consolidamento di questo strumento, ma anzi si è affermata una forma di negazione della stessa libertà di scelta che ne costituisce il valore originario.
Emblematiche in questo senso, le primarie per il candidato Premier che videro battersi due anni fa Bersani e Renzi, quando la dirigenza del partito partorì un meccanismo di autentica mappatura genetica dei propri elettori, arrivando a chiedere la giustificazione con prove tangibili per la mancata partecipazione al primo turno, e sopratutto realizzando il più colossale controsenso mai visto nella storia delle democrazie occidentali, ovvero il fermo e lucido respingimento degli elettori dalle urne. Tutto ciò in nome di un principio che, in politica, parrebbe una sesquipedale follia, ovvero un restringimento perimetrale, per non dire ghettizzante, del proprio elettorato, ridotto per totale mancanza di senso di realtà quasi ai soli iscritti al partito, escludendo a priori di poter conquistare il consenso di nuovi sostenitori. La debacle rimediata alle elezioni politiche, nacque allora, e certo non poteva stupire che partendo  da presupposti tanto sbagliati si giungesse ad una fallimentare "non vittoria".
Ora, l'esigenza di una regolamentazione chiara e soprattutto di garanzie di trasparenza nei meccanismi di iscrizione e di voto alle primarie del Pd, è ancora evidente e non la si può in alcun modo nascondere o negare, se davvero si vuole non solo riaffermare il valore di questo strumento ma anche sperare che, garantendo davvero ai cittadini di poter scegliere i loro candidati - meccanismo molto più potente e sensato dell'illusorio voto di preferenza dato alle elezioni con liste già fatte da altri - questi vi si affezionino a tal punto da costringere tutti i partiti a praticarlo.
Ma la posizione di Cofferati è indifendibile, da qualunque punto di vista la si guardi. Nel momento in cui ha scelto di candidarsi, era perfettamente consapevole della penetrabilità del meccanismo, dunque aveva comunque già scelto di accettare il rischio, premesso che, avendo ricoperto ruoli non proprio secondari, politicamente parlando, avrebbe potuto da gran tempo mettere a disposizione del partito tutta la sua sapienza ed esperienza per migliorare le regole delle primarie, invece di fingere di cadere dal pero a sconfitta incassata.
Dunque, ha scelto di correre pensando che, se avesse vinto, avrebbe potuto dire di averlo fatto nonostante tutto, e se avesse perso avrebbe potuto dichiararsi vittima di un meccanismo falsato, ma nel primo caso non avrebbe rinunciato alla propria vittoria per amore di verità, temiamo. Avrebbe invece scelto di farsi testimone di una eroica vittoria contro il sistema che pure l'aveva generata. Un atteggiamento un tantino schizofrenico, a occhio.
E le sue dimissioni polemiche e rancorose, in nome di una purezza di principi da difendere sollevando opportuno e virtuoso scandalo, sono egualmente indifendibili, perchè se davvero si crede in qualcosa ci si batte stando dentro un partito e lavorando per cambiarlo in meglio, non si fugge perchè sconfitti ed offesi, rinnegando persino il valore di quelle scelta di democrazia insita nelle primarie cui si aveva deciso di partecipare. C'è una lezione dura e profonda nella sconfitta, che è quella che dimostra davvero la bontà di ciò che muove gli individui: se perdi, ti rialzi e continui per la tua strada, la tua buona fede è evidente e ne esce persino rafforzata, ma se perdi e scappi, incolpando le regole ed il tuo partito, allora vuol dire che hai corso per motivi che nulla hanno a che vedere con i principi ma molto con il solo tornaconto personale.
Il termine di paragone, in questo caso, è evidente e ce lo ricordiamo tutti perchè molto recente. Renzi perse contro Bersani, e prima ancora contro regole assurde, fece un bellissimo discorso della sconfitta, e poi si mise a disposizione del partito per tutta la campagna elettorale delle politiche. Se fosse scappato, non solo avrebbe perso faccia e credibilità, ma avrebbe tradito tutti coloro che lo avevano sostenuto in quella battaglia e che si riconoscevano nel Pd rappresentato da lui e dal suo programma e non da quello di Bersani. Quelli che sono tornati, e quanti, a votarlo un anno dopo alla primarie proprio come Segretario del partito.
Dunque, le cineserie vecchio stile di Cofferati non hanno più senso di esistere perchè non portano nulla di autentico e di utile al dibattito politico, men che meno depongono a favore della sua credibilità. Resta, certo, l'esigenza di affrontare una volta per tutte la regolamentazione e la trasparenza delle primarie, e questo è un compito di cui Segretario e dirigenza del Pd devono responsabilmente farsi carico, ma chiunque ci sia stato prima di loro negli anni, tacendo, anzi avallando, certi mostruosi pastrocchi del passato più o meno recente, abbia almeno la decenza di tacere.
E se proprio non possiede la nobile arte del saper perdere, si ingegni in quella dell'uscita di scena decorosa, senza rinnegare ciò che fino al giorno prima gli era andato benissimo al punto di farlo proprio tentando di cavalcarlo.

ChiBo

giovedì 8 gennaio 2015

Non possiamo non dirci laici

Ha ragione chi oggi scrive che quanto accaduto a Parigi è il nostro 11 Settembre, perchè ci colpisce nel fulcro della nostra civiltà che non risiede nel potere economico o politico, ma nel fondamentale assunto della libertà intesa come somma di tutte le libertà individuali capaci di tenersi insieme nel rispetto delle reciproche diversità. Quel "non la penso come te ma mi batterò fino alla morte perchè tu possa esprimere le tue idee" che è stata e resta la nostra più grande conquista, la nostra migliore prerogativa, la nostra unica concreta possibilità di salvezza dai totalitarismi di ogni genere, compresi quelli religiosi.
Dunque, è evidente che chi voglia minare le nostre vite dalle fondamenta, attenti alla nostra libertà principale, quella di espressione, madre di tutte le altre, e che miri al cuore della satira che esercita la sovversiva arte del riso e dello sberleffo che costituisce l'offesa più profonda per chi vive di paura, semina paura, predica paura, opprime con la paura e teme il ridicolo più di ogni altra cosa.
Nessuno è più libero di chi sa ridere, perchè per farlo occorre spirito critico, innanzi tutto - il più temibile avversario di ogni integralismo - e poi quella leva meravigliosa, leggerissima e ficcante insieme, che è l'ironia, strumento di lettura del reale a disposizione dell'intelligenza indagatrice. Nessuno è più schiavo di chi non sa ridere, e confonde la serietà con la paura, il ghigno persecutorio con la verità, ostentando sempre una faccia buia e ringhiosa come prova della propria inutile forza. Perchè senza libertà, la forza genera solo mostri, uccide ma non fortifica, devasta ma non costruisce, annienta ma non progredisce. Conquista terreno incolto solo per strisciarci sopra, ma non sa farne terra fertile capace di dare frutti.
La nostra storia, quella che rende l'Europa, pur con tutti i limiti, ancora e sempre una terra di libertà e di diritti, di tutele e di garanzie, è una conquista lenta, lunghissima, dolorosa e faticosa sul cammino che porta dal buio dell'oppressione alla luce, sia pure ricca di ombre, della democrazia. Abbiamo vissuto, combattuto e superato gli assolutismi di ogni genere, le monarchie, i regimi, il potere temporale della Chiesa, e lo abbiamo fatto con il più potente strumento a nostra disposizione, ovvero la costruzione, l'elaborazione e l'esercizio di un pensiero critico che è l'unico vero antidoto contro ogni forma di soggezione intellettuale, religiosa o politica che sia. Lo abbiamo fatto nel momento in cui abbiamo stabilito che la diversità di opinioni, fedi, convinzioni, non era il pericolo da combattere ma la nostra più grande risorsa, ciò che infine ci rende liberi tra liberi, capaci di convivere ognuno secondo le proprie idee, trovando un denominatore comune nella reciproca libertà di criticarle, opporvisi, combatterle sul terreno dell'argomentazione logica e dialettica, senza per questo imprigionare, condannare, uccidere, giustiziare nessuno in nome di una qualunque ortodossia assolutista.
Per questo, per difendere tutto questo, per ribadire i principi ed i valori della nostra civile convivenza, oggi più che mai non possiamo non dirci laici, di quella sana, felice, fertile laicità che è l'unica vera garanzia che possiamo offrire a tutti noi. Garanzia di libertà eguale fra diversi, di tutela e di rispetto, di rifiuto della paura e dell'oppressione, della minaccia e della schiavitù prima di tutto intellettuale che è quella che genera tutte le altre.
È la laicità che permette alle Costituzioni di dichiararci tutti uguali stabilendo il nostro diritto individuale a pensarla come ci pare, ed a farlo, a dirlo, a scriverlo, dipingerlo, disegnarlo, filmarlo senza essere perseguitati per questo. È la laicità che non stabilisce elenchi di cose proibite - libri, film, vignette, articoli - ma asserisce invece che tutto è passibile di critica, discussione, dibattito e controargomentazione, nell'ambito di un reciproco rispetto che si fonda sul riconoscimento del diritto di ciascuno ad avere una opinione diversa, che è l'elemento maggiormente destabilizzante per chi invece vuole imporre con l'unico strumento che ha a disposizione, la violenza cieca che genera paura, una ed una sola verità. E non importa che sia in nome di un dio, di una fede politica, di una qualunque teoria, l'ossessione del possesso di una mono-verità si manifesta sempre allo stesso modo, ed ha sempre e solo un principale nemico, la libertà di pensiero che genera invece molteplicità e ricchezza di posizioni diverse.
È la laicità che oggi dobbiamo difendere, non per bandire una nuova crociata religiosa, ma per ritrovare invece la forza di combattere una nuova potente battaglia intellettuale e culturale. Se ci pieghiamo alla logica censoria del "se la sono cercata, non si fanno vignette sull'Islam impunemente" rinunciamo per viltà e codardia intellettuali a difendere il valore fondante della nostra civiltà, quella profonda e necessaria necessità di confronto anche aspro, anche forte, anche provocatorio, che fa di noi persone in grado di misurarsi sul terreno delle nostre convinzioni fino ad arrivare ad una sintesi accettabile ai più.
Per cui difendere oggi la laicità non è una battaglia religiosa o contro una religione, che è la trappola riduttiva in cui non dobbiamo cadere, ma è invece una battaglia fondamentale contro qualunque assolutismo attenti alle nostre sofferte conquiste, tutte riassumibili nella  originaria libertà, vastissimo contenitore di concetti e, prima di tutto, responsabilità. Questo riafferma la laicità come necessaria ed imprescindibile: la nostra indiscutibile, gravosa, meravigliosa responsabilità di essere individui liberi, chiamati a pensare, agire, operare come tali. Con la consapevolezza che non è mai un dio a minacciarci, ma sempre un disegno buio ed opprimente di privazione di libertà.

ChiBo