lunedì 6 ottobre 2014

Leopoldo Cuperlo, l'ultimo fake

Una crisi di identità capita a tutti, almeno una volta nella vita, specie quando il tuo mondo ti crolla addosso all'improvviso mentre sei ancora impegnato a costruirne la mitologia come se il futuro fosse solo una eterna ripetizione del passato, quindi bisogna essere molto comprensivi con il povero Gianni Cuperlo che, piovuto in mezzo a noi direttamente dalla narrativa mitteleuropea, come un personaggio in eterna ricerca di identità mentre tutto intorno a lui cambia e si evolve, si è infine auto-nominato Leopoldo, come uno sbiadito Granduca nato per regnare e finito invece per vagare eternamente in cerca di una corona che non c'è. Più.
Eppure, aveva tutte le carte giuste a suo favore. Quella bionda vaghezza da Principe Azzurro, così blasè, ed un poco imbalsamata, a dire il vero; l'erre blesa, a testimoniare una nobiltà naturale già nel linguaggio, per quanto poi poco o nulla incisiva, specie nella rudezza del dibattito politico; gli studi giusti, atti a collocarlo in quell'area indistinta fra la teoria ed il reale dove sguazzano ambiguamente e comodamente da decenni i nostri intellettuali, sollevati dall'onere di produrre qualcosa di sensato e, non sia mai, utile a questo paese. E poi la collocazione a sinistra, quella giusta a prescindere, riconoscibile dal vezzo aristocratico ed insieme snob del dichiararsi dalla parte degli ultimi senza mai averli incontrati, tenendosi al riparo dalla volgarità tra le mura amiche dei convegni tra simili, delle elette conventicole, delle auree fondazioni - chè la vita, perbacco, è prima di tutto un gesto di stile, una cifra espressiva, mica sporcarsi le mani con la cruda realtà.
E, fino ad un certo punto, la vita è stata tenera, con lui, proteggendolo da ogni confronto, evitandogli ogni contrasto, collocandolo in un ruolo secondario ma solido, ove coltivare operosamente una piccola gloria quotidiana di maître a penser per mancanza di prove, finchè l'improvviso irrompere del barbaro invasore fiorentino ha costretto la vecchia guardia a serrare le fila ed a scendere, per la prima volta e soprattutto per davvero, in battaglia, e che battaglia - la più dura e sanguinosa, quella della sopravvivenza.
Dunque, il Principe Azzurro è stato chiamato ad essere il campione altrui, di quelli che lanciano il sasso e nascondono la mano, ed anche di quelli che non sanno fare tesoro dei propri fallimenti ed organizzare, almeno, una uscita di scena dignitosa. Gli hanno offerto un ruolo bello e glorioso, vocato alla sconfitta fin dall'inizio, come si conviene all'ultimo epigono della Marcia di Radetzky, un ruolo da eroe letterario e post-romantico, mandato al sacrificio senza speranza alcuna di cavarsela ma con l'aura dorata del bello e giusto a coronargli la bionda chioma. Doveva vincere nei circoli, per sperare di frenare, almeno, l'ascesa del Rottamatore al sacro soglio della guida del Pd, e costringerlo a trattare con una parte ancora corposa e dotata di voti sufficienti a rendergli la vita impossibile all'interno del partito. E il bello è che ci credevano davvero, dicevano "vedrete le votazioni dei circoli, siamo avantissimo, le primarie non basteranno a Renzi per spazzarci via". Infatti.
Il Principe Azzurro ha perso là dove non era mai stato, ovvero tra i militanti che non erano pronti a comprenderlo nè a tradurre in termini popolari il suo eloquio alto e vacuo. Ha perso nel confronto con il reale, nell'approccio con la base, che forse è brutta sporca e cattiva, e non legge Proust, ma ha capito che al profumo delicato della madeleine che continua a parlare di passato è preferibile quello più corposo e convincente di chi osa progettare il futuro. Ma ha perso peggio, e nel peggiore dei modi, quando, investito comunque di un ruolo importante come la presidenza del partito, non lo ha compreso nella sua essenziale funzione di sintesi e lo ha confuso irreparabilmente con quel trono che alla sua nascita le fate madrine con i baffi avevano promesso affacciate alla sua culla.
Oggi, nella perdurante ed aggravata crisi di identità che lo affligge e da cui non è in grado di uscire, tanto da vedere la gloria del suo nome perpetuata da uno spassoso, acuto, sarcastico, devastante fake su Twitter che è più noto e certo più seguito di lui, non trova di meglio che riprendere sdegnate e precise distanze da quel popolo che non lo ha voluto come leader, facendo una sciocca e meschina ironia sull'evento che ha segnato l'inizio della fine del suo mondo, quella Leopolda che ha riaperto le porte della politica e della partecipazione ai cittadini e, così facendo, ha saldato un legame forte fra gli elettori ed il proprio leader, traducendolo alla prima occasione in voti veri, sonanti e pesanti, quelli che nel mondo irreale del Principe Azzurro e dei suoi cattivi consiglieri non si erano mai visti neanche con le manovre astute del Gatto con i Baffini.
Così, il povero eroe mancato di un impossibile ritorno al passato, ha chiuso il cerchio e si è battezzato Lepoldo. Ultimo Granduca di un regno che non c'è più. Per fortuna.

ChiBo

4 commenti:

  1. tutto sommato, posso condividere questa tua apologia del partito liquido, quello che ha (almeno, per ora, magari, per sempre) liquidato la Ditta e l'ideologia, gli schemi e il passato.

    il crollo degli iscritti, in corrispondenza del trionfo elettorale, è lì a certificarlo.

    ti dirò di più: se domani ci fossero le elezioni e Renzi si presentasse con il simbolo "Forza Matteo", otterrebbe anche più del 40.8%, con buona pace della sinistra (sinistra??), del partito democratico, etc...

    e il modo in cui gongola Berlusconi, quando parla di Renzi, dimostra che (ancora una volta) un (ex?) democristiano è arrivato nella stanza dei bottoni.

    da qui, poi, a dire che l'apoteosi del personalismo rappresenti un futuro roseo per la politica e l'equilibrio democratico, boh...

    ci sarebbe l'esempio di Forza Italia (o come diavolo si chiama adesso) a dimostrare che l'effetto "dopo di me il diluvio" non porta (granchè) bene, ma ogni caso (forse) fa storia a sè.

    i posteri ci daranno la famigerata ardua sentenza.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Tra Berlusconi e Renzi c'è una differenza sostanziale, la stessa che passa fra personalismo - inteso come mero cesarismo - e leaderismo. Berlusconi si è auto incoronato, il partito è solo suo in virtù del suo potere economico, non ha alcuna forma di democrazia interna ed è destinato a finire con lui, non avendo mai costruito una classe dirigente per timore che potesse fare ombra al Capo. Renzi è stato scelto da un milione di elettori - e non solo iscritti - del Pd come leader e sta costruendo anche una nuova classe dirigente sia a livello nazionale che nei Territori facendo saltare il tetto della Ditta dalle fondamenta.

      Elimina
    2. non credo che tu abbia capito (del tutto) il senso del mio discorso.

      ripeto: il famoso 40.8% è da ascrivere (totalmente) a Renzi, non ha nulla a che fare con il PD, la sinistra, la (nuova) classe dirigente, etc...

      poi, se tu vuoi pensare che le varie Bonafè, Picierno (!), Moretti abbiano "trascinato" il partito con le loro (assortite) benemerenze, fai pure.

      ergo, il confine tra leaderismo e personalismo è tanto sottile che più sottile non si può.

      e in quel "personalismo" ci metto tutto: ego, sindrome del prezzemolo, ricerca (costante) del consenso attraverso battaglie (?) di marketing, e così via.

      tutto questo ha pagato (chi dice il contrario?), ma questo non è il governo Renzi, è il governo "di" Renzi, nel quale non si muove foglio se il presidente non ha controllato (prima) persino le virgole.

      last, but not least... ribadisco che, se si votasse entro qualche mese, e Renzi si inventasse (tipo) il simbolo "Forza Fiorentina", straccerebbe il PD tanti a pochi.

      Elimina
    3. Caro amico, nel tuo commento precedente hai parlato di forma e gestione del partito, su quello ho risposto facendo infatti riferimento alle primarie che hanno eletto Renzi segretario del Pd, non alle politiche e men che meno ad eventuali trascinamenti da parte di altri, quindi forse hai equivocato tu. Poi, sì, questo è il governo di Renzi, che controlla tutto, e fa bene, visto che si regge sul suo programma, sulle sue idee e sulla sua forza, quindi si assume per intero la responsabilità del suo operato, come è giusto che sia e come avviene nelle democrazie evolute e mature dove avere un leader è necessario ed indispensabile. Meno concentrazione logora e sterile, più decisione. È evidente che i voti del Pd, oggi, sono i suoi, e lo saranno anche alle prossime elezioni, dunque Matteo non ha nessun bisogno di farsi un proprio partito.

      Elimina