giovedì 30 ottobre 2014

Burattinai disoccupati Social Club

Si è molto scritto, in questi giorni, su quella parte di sinistra che ha sostituito con l'antirenzismo viscerale l'antiberlusconismo militante dell'ultimo ventennio, usato contemporaneamente come unico collante di forze altrimenti disgregate e divise su tutto, e come copertura del totale vuoto di idee e di progettualità politica che ha causato il progressivo ripiegamento e la consistente perdita di voti del Pd e dei suoi alleati. In effetti, i toni sono gli stessi, stessa è la affannosa ricerca di una delegittimazione ad ogni costo anche se, in questo caso, contro ogni logica visto che Renzi è stato eletto Segretario del Pd con le primarie, con i voti di quasi due milioni di elettori del partito, e dunque farlo passare per un alieno usurpatore è esercizio un tantino più complesso della rappresentazione che invece si è fatta negli anni di Berlusconi, come prodotto di un bacino elettorale di minus habens ipnotizzati dalle sue reti televisive, ma tant'è, nel furore della battaglia a difesa delle rendite di posizione non si può pretendere che partecipi anche la logica, specie quando l'invettiva lanciata a casaccio è tanto più efficace, mediaticamente, e tanto meno faticosa del ragionamento.
Ma in questa condivisibile analisi dei fatti, manca una categoria, a completamento del quadro dello scontro in atto, ed è quella più subdola, più sottile, più arrogante perchè travestita da saggia osservatrice che vorrebbe vendersi per distaccata e razionale, e dunque obbiettiva e disinteressata, e naturalmente preoccupata solo delle sorti del paese, mentre invece patisce male, e metabolizza peggio, la propria caduta dalla cattedra dove si era, del tutto immeritatamente, installata. La categoria dei burattinai rimasti disoccupati merita davvero un approfondimento a parte, un ritrattino ad hoc, prima che sparisca nell'oblio, perchè ne resti comunque il ricordo, insieme a quello del danno che ci ha procurato e che ancora tenta di procurarci, con le residue forze - per fortuna sempre più esigue - che le sono rimaste.
I componenti di questo Social Club per reduci di lungo corso, si distinguono per due significative caratteristiche: hanno partecipato, a vario titolo e spesso per lungo tempo, al governo di comuni, province, regioni, partecipate, enti pubblici, ed hanno fatto politica nella  Prima e nella Seconda Repubblica seguendo il consolidato schema consociativo per cui si fa finta di scontrarci ma intanto si regna tutti insieme, ci si accorda su tutto, ci si blocca amabilmente con piccoli quanto redditizi poteri di veto da far valer negli immancabili quanto inconcludenti tavoli delle trattative, e intanto si resta tutti solidamente al proprio posto, inanellando pensioni d'oro, vitalizi di platino, a conferma che la politica, se fatta con criterio, allunga la vita a dismisura, e certo ne migliora la qualità individuale. E pazienza se il rovescio della medaglia è la progressiva paralisi di un paese, mors tua vita mea è da sempre il primo motto della nostra repubblica corporativa.
Ora, ciò che ha sempre permesso a costoro di restare a galla, oltre ad un reddere ationem sempre rinviato più avanti, nel tempo cristallizzato di un'unica generazione al potere, sempre la stessa, al comando da settant'anni, è la loro consolidata attività di burattinai, altrimenti nota come cooptazione, ovvero: cari ragazzi state buoni e mettevi in coda, dateci retta, obbediteci, serviteci e sosteneteci fedelmente, poi quando avrete almeno cinquant'anni vi permetteremo di accedere ad incarichi più alti, ma sempre restando sotto la nostra ferma ed inoppugnabile guida, chè qui comandiamo noi e su questo non si discute.
Dunque, il problema che ora li intossica, e li spinge all'ultima, si spera, disperata offensiva mascherata niente meno che da lotta contro il nuovo tiranno Renzi, è che costui ha osato fare a meno di loro, costituendo un precedente pericolosissimo perchè potenzialmente letale per la sopravvivenza dell'intera categoria. Ci hanno provato, fin dall'inizio, a manipolarlo, alcuni lo hanno persino sostenuto pensando poi di poterlo governare a loro piacimento, riproponendosi nell'eterna veste di padri nobili e consiglieri infallibili, ma stavolta gli è andata male, perchè il ragazzo ha mostrato subito una inequivocabile ed  irresistibile propensione a fare di testa sua, ed ha esercitato quel sano diritto-dovere che dovrebbe essere proprio e naturale di ogni generazione, ovvero quello di andare a conquistarsi la propria posizione senza chiedere permessi e benedizioni a nessuno, una cosa del tutto fisiologica nel resto del mondo, un atto di inaudita ribellione nel paese dell'unica sempiterna generazione al comando.
Che dunque ha cominciato a sparargli addosso, ed a farlo con furbesco cinismo, l'unico ingrediente che permette di proporre continue giravolte di pensiero spacciate per profetiche previsioni almeno tre volte al dì. O alla settimana, o al mese, a seconda dei tempi di reazione necessari ad assorbire ogni malaugurio caduto nel vuoto ed a reinventarsi esperti nella strategia del nulla mischiato con qualche amena bugia. La tattica è questa: sorvolare saggiamente su ogni responsabilità maturata nel disastro di questo paese, riproporre vecchi cavalli di battaglia, già ampiamente falliti ma sempre buoni per i poveri di spirito, agitare lo spettro della democrazia in pericolo, aggiungere la profezia del tiranno in pectore, e spostare sempre l'asticella un po' più in là, ad ogni previsione sbagliata. Cadrà sul Senato, no, sul Jobs Act, no, sulla Finanziaria, no, in Europa - prossima fermata, temiamo, i disordini di piazza.
E intanto, ripetere che Renzi "non ascolta", messaggio in codice per dire che non ascolta costoro, i saggi, i manovratori, i gestori della cosa pubblica mandata allo sfascio.
E intanto, deridere i suoi elettori, quelli che vanno alla Leopolda, e non si capisce, perbacco, perchè invece non siano accorsi in massa a qualche ristretta riunione di reduci e vecchie glorie dello zero virgola nulla, ad imparare come si fa a stare al mondo e galleggiare sempre. E davvero questi giovani sono maleducati e riottosi, preferiscono andare a sentire uno di loro, che li spinge a non aspettarsi nulla dall'alto ma a battersi per ciò che vogliono conquistare, invece di partecipare ad un bel convegno sulla necessità di inchiodare ancora questo paese  per un paio d'anni con una bella, vasta, colta, saggia, interminabile e del tutto inutile discussione sulle riforme. Come se averne parlato per trent'anni non fosse stato abbastanza.
E intanto, ammiccare fra nati imparati e nati tutelati, fra un Social ed un club privè, fra una fondazione ed un convegnino, fra un "fummo i gattopardi" ed il "abbiamo ancora ragione noi ma ce lo diciamo fra pochi, che costruire consenso e voti pare brutto ed anche un tantino, ecco, cheap".
E intanto, continuare a raccontarsela, guardando sempre indietro, senza mai riconoscere i proprio errori, per carità, come se il presente non esistesse ed il futuro non fosse tutto da costruire.
E intanto, illividire di meschino rancore per chi, a differenza loro, ha fatto a meno di padri e padrini, di manipolatori e burattinai, e testardamente va avanti da solo, aprendo la strada ad una nuova generazione ma anche, già, a quella che la seguirà.
E intanto, non capire che questo paese ha già scelto, e non per mancanza di alternative - ultimo desolante alibi degli sconfitti da se stessi - ma perchè ha finalmente capito una lezione importante, ovvero che è meglio pagare gli inevitabili errori di inesperienza di una nuova generazione, piuttosto che continuare a pagare il conto senza fine di quelli che ci hanno portato a questo disastro.
Con buona pace del Burattinai disoccupati Social Club.

ChiBo

lunedì 27 ottobre 2014

Due sinistre e un sindacato

Tutto ruota intorno ad una domanda: le 19.000 persone di ogni età e condizione sociale che per tre giorni hanno affollato la Leopolda - dove, giova ricordarlo, sono arrivate a spese loro - partecipando animatamente e costruttivamente ai cento tavoli di confronto, possono essere considerate parte di quel "paese reale" che, invece, è stato individuato a prescindere nella piazza di San Giovanni? Sono cittadini come gli altri, oppure la loro scelta di riconoscersi nella politica come laboratorio di idee e progetti, invece che come prova muscolare affidata al rilievo numerico, li colloca in una categoria parallela, per non dire aliena, per non sottintendere estranea, alla vita sociale e civile di questo paese?
La domanda non è oziosa, men che meno pretestuosa, non solo perchè la si è colta ovunque, alla Leopolda, via via che arrivavano da Roma le dichiarazioni dal palco e dalla piazza della manifestazione, ma soprattutto perchè riflette bene la reale linea di confine che da tempo si è trasformata in vera e propria trincea interna al Pd, da quando Renzi lo ha conquistato vincendo le primarie e diventandone il Segretario, scelto dagli elettori ma inviso alla vecchia, non solo anagraficamente, classe dirigente. Che lo avversa, lo percepisce estraneo e lo respinge come un virus aggressivo che mette a dura prova gli anticorpi indeboliti da anni di frequentazione di spazi sempre più ristretti ed autoreferenziali. E che trasferisce questa avversione su coloro che lo appoggiano, non riconoscendoli come un corpo elettorale ma come un corpo estraneo, non collocabile entro un bacino identitario, non riconducibile ad una tradizione precisa, ad una formazione univoca, ad una matrice comune radicata nel passato, e dunque una entità da temere e da respingere - come nelle sciagurate primarie Bersani-Renzi - non certo da accogliere per compiere finalmente quella vocazione maggioritaria che ancora viene considerata una perdita irreparabile di identità, invece che una ragionevole e costruttiva operazione di allargamento dei propri confini politici ed anche, o prima ancora, sociali e culturali.
Da questo punto di vista, la scissione si è già verificata da tempo, e la giornata di sabato l'ha solo rappresentata plasticamente. La ex maggioranza, divenuta minoranza per volere del proprio stesso elettorato, quello che ha scelto Renzi come Segretario, incapace di metabolizzare le ragioni della propria sconfitta, e men che meno di riconoscerle, sceglie di giocare su due tavoli, dentro e fuori il Pd, per pavidità ed ipocrisia, riducendosi ad accodarsi ad una manifestazione sindacale invece di assumersi in prima persona le proprie responsabilità e compiere un gesto coerente, fondando un nuovo soggetto a sinistra che, però, con grande probabilità li condannerebbe all'inesistenza per esiguità di consensi. Chè le piazze piene, diceva saggiamente qualcuno, portano urne vuote e, aggiungiamo, oggi la mobilità elettorale è diventata una realtà con cui fare i conti anche in Italia, come hanno dimostrato le ultime elezioni politiche ed europee.
La nuova maggioranza invece ha scelto di giocare su un tavolo solo, molto più ampio, quello dell'inclusività sulla base di una confluenza trasversale di intenti intorno ad un progetto, ad una proposta di approccio e soluzione dei problemi endemici del nostro paese; un tavolo riformista che, a differenza delle eterne discussioni sul nulla mai approdate ad alcunchè, pone degli obbiettivi, si da dei tempi stretti e poi decide ed agisce di conseguenza. Il cosiddetto partito della Leopolda, nato da questi presupposti, aperto a tutti quelli che vogliano partecipare, senza barriere ideologiche, senza spocchie e snobismi di casta, senza giuramenti per la vita, grazie al pragmatismo estremo e lucido di un leader che sa benissimo che il consenso, quello che poi si traduce in voti, oggi non è più dato da una fede immobile e dogmatica praticata a prescindere, ma è invece una fiducia a tempo che si concede e poi si ridiscute sulla base dei risultati ottenuti.
Dunque, fra il palco - non la piazza, il palco, e chi ci sta sopra - di San Giovanni, e la Leopolda, corre la stessa abissale e non riassorbibile distanza che separa due secoli, quello scorso e l'attuale, e due concezioni della politica, quella conclusa per sempre degli "ismi" novecenteschi e quella mobile e liquida di oggi. Le due sinistre del Pd quindi sono reali, ed il sindacato della Camusso funge da foglia di fico di una delle due, quella oggi minoritaria ma per decenni imperante e paralizzante con cui è andato a braccetto, fino ad arrivare a confondersi, a travasarsi, a condividere leaders e prese di posizione sempre in chiave immobilista e corporativa.
È gioco facile sottolineare come la sinistra che non votò lo Statuto dei lavoratori oggi lo difende, accodandosi al sindacato che ne ha fatto un feticcio senza però applicarlo in casa propria, visto che l'articolo 18 per loro non vale, con il risultato che le grandi controproposte fatte al governo dell'usurpatore Renzi si riassumono in una patrimoniale e nella conservazione di uno status quo invece che nell'estensione di diritti da pochi a tutti. È  gioco facile anche rilevare che la reiterazione dei propri errori è la vera malattia di una sinistra incapace di imparare almeno dal proprio passato, che sconsiglierebbe di scendere in piazza contro un governo ed un Premier espressi dal proprio partito, ma che suggerirebbe anche di liberarsi da questa sovrapposizione totale con il sindacato che, per chi fa dell'identità una ragione stessa di esistenza, non è affatto prova di coerenza ma, semmai, di eccessiva debolezza e di estrema labilità dei propri tratti distintivi.
È gioco ancor più facile osservare che certe livorose esternazioni verso un elettorato percepito come estraneo fino a definirlo addirittura "imbarazzante" sono solo pesanti boomerang destinati a ricadere addosso a chi li ha lanciati con tanta spocchiosa prosopopea, specie se dall'altra parte c'è chi apre le porte a tutti sulla base di un principio di appartenenza a questo paese che è molto più ampio ed inclusivo del limitato e passatista vincolo di bandiera, ristretto nei confini rigidi dell'ortodossia di partito. Perché questi giurassici sopravvissuti a se stessi ed ai propri macroscopici errori stanno scontando già la giusta pena del contrappasso, ovvero scomparire nella minorità da loro accuratamente coltivata e difesa, mentre la vocazione maggioritaria finalmente si afferma come principio di autentica democrazia partecipata: Italia bene comune, slogan della clamorosa sconfitta della Ditta bersaniana, si realizza invece grazie a Renzi ed alla esperienza della Leopolda, che non è un partito ma un luogo dove si è detto che tutti sono benvenuti se davvero desiderano contribuire al bene comune che tutti condividiamo, nel bene e nel male, ovvero le sorti del nostro paese.
Dunque, la scissione è già in atto, ci sono due sinistre ed un sindacato a fare da stampella ad una delle due, e l'unica vera differenza è fra chi è capace di leggere la contemporaneità  e di tradurla in progetto politico che costruisca il futuro, e chi invece resta aggrappato ad un mondo che non c'è più evocandolo in raduni di piazza che paiono sedute spiritiche atte a resuscitare il passato che, però, ha la stessa inconsistenza dei fantasmi. Puoi ancora vederli, ma non hanno più nè peso nè voce. E neanche votano.

ChiBo

lunedì 20 ottobre 2014

Mal di Leopolda

Siamo alla quinta edizione, e ancora non l'hanno capita - naturalmente, ci riferiamo a quelli che alla Leopolda non ci sono mai stati, ma che si sono invece distinti nel corso degli anni per il loro malcelato disprezzo verso questo evento, unito ad una forma di autentico sospetto verso chi, a differenza loro, non teme di aprire le porte ai cittadini, e ad un risibile sforzo, ogni anno più debole e meno giustificabile, per organizzare improbabili contro-eventi sotto l'egida salvifica della bandiera di partito. 
Quest'anno, si son portati avanti con il lavoro, ed hanno cominciato l'opera di delegittimazione prendendola larga, anzi larghissima, chè i signori della non vittoria sono bravissimi in questo - anzi, a guardar bene è l'unica cosa che gli riesce davvero. Costruiscono dal nulla un vago argomentare, lo abbelliscono di un ricamo populista, lo avvolgono su un giro di parole che sale su, fino a culminare nella difesa del partito sottintendendo che il Segretario invece gli rema contro, ed il gioco è fatto. A parole, non li batte nessuno, negli argomenti invece sono un po' meno ferrati, specie quando difettano di una accettabile base logica, chè quella politica, via, non si può pretendere.
E quindi ecco il mitologico Fassina partire all'attacco e sostenere, senza neanche provare un vago senso del ridicolo, che Renzi dovrebbe devolvere ai circoli del Pd i due milioni di euro versati dai finanziatori della Leopolda, invece di usarli per realizzare questo evento che non è del Pd, non è fatto a nome del Pd e dunque, si intuisce dal suo acido insinuare, ha certo finalità poco nobili, mentre si lasciano morire di inedia e di miseria tanti poveri circoli abbandonati a se stessi. Perbacco, dirà qualcuno, ma questo è lo stesso Fassina che non ha battuto ciglio di fronte alla gestione Bersani che ha provocato un deficit di bilancio pauroso nelle casse del partito?! E non dovrebbe sapere che i circoli sono in crisi da anni per colpa di questa malagestione delle finanze del partito ereditata dagli ex diessini che, invece di elargire al neonato Pd il loro ricco tesoro, lo hanno blindato e messo al sicuro nelle Fondazioni, continuando peraltro a spendere come se non ci fosse un domani?! 
Sì, è lo stesso Fassina, solo che lui non sa, non ricorda, non si ripiglia, soprattutto, dal filotto di sconfitte e fallimenti messo insieme dalla Ditta di cui è stato orgoglioso sostenitore, e ricorre a mezzucci verbali di bassissimo livello per delegittimare un evento che gli è estraneo e che gli procura annuali mal di pancia col successo che riscuote, a dispetto di tutti i suoi sforzi per farlo passare come la riunione di una oscura setta dedita a riti cospiratori atti a distruggere per sempre il suo piccolo mondo di travet della politica, irrimediabilmente destinato alla navigazione interna di piccolissimo cabotaggio.   
E a rafforzare questa visione ombelicale ed autoreferenziale, gli è venuto in soccorso Cuperlo, un altro che di passati perduti se ne intende assai, ponendo un interrogativo che è l'epitome della sinistra perdente e dimentica del proprio stesso ruolo: "Che cos'è oggi la Leopolda?! A chi è di aiuto?!". In queste due domande si riassume perfettamente quella totale perdita di contatto con l'elettorato che ha generato la non vittoria del tacchino sul tetto, ovvero una concezione di partito come conventio ad excludendum, riservata ai soli iscritti, ai circoli, alle sedi chiuse, ai rituali congressuali celebrati fra simili, alle correnti gestite come trincee inespugnabili di rendite di potere, e mai aperta a quella vocazione maggioritaria che pure fu la spinta fondante ed innovativa del Pd, rispetto alla vecchia narrazione della sinistra novecentesca.
Perchè Cuperlo, come Fassina, non ci fa ma ci è: ad entrambi sfugge il senso vero della Leopolda, ovvero quello di offrire uno spazio di incontro e di confronto ai cittadini senza chiedere loro una tessera per partecipare, una mappa del DNA per legittimarsi, una adesione firmata col sangue al pensiero unico per poter parlare. È un luogo dove, quattro anni fa, si riaprì la porta agli elettori, cacciati fuori dai partiti e dalla discussione politica, e si disse loro che era il momento di sanare quella frattura, di ricominciare a parlare ed a parlarsi, di individuare obbiettivi comuni da perseguire non in nome di una bandiera ma del bene e dei bisogni di un paese. 
La Leopolda è stata la controproposta - l'unica - alla marea montante dell'antipolitica becera e sguaiata cavalcata da Grillo, ed è stata una alternativa vincente tanto nella formula quanto nel progetto politico che lì ha preso forma, ripartendo da quel dialogo diretto con i cittadini che è il tratto che contraddistingue più di ogni altro Renzi, e quindi il suo governo. I più chic la chiamano disintermediazione, ma si potrebbe definirlo metodo Leopolda, ovvero quello che ha reintrodotto la funzione di cinghia di trasmissione fra cittadini ed istituzioni che la politica italiana aveva completamente rimosso, sino a trasformarsi in un mondo a parte, parallelo e mai tangente quello della gente comune. 
E dunque la risposta alla domanda insipiente di Cuperlo sta esattamente in ciò che lui non può vedere perchè non è programmato a farlo: sì, la Leopolda non solo ha un senso, oggi come ieri, ma "aiuta" - per usare il verbo a lui caro - a raggiungere ed incontrare i propri elettori, che sono un mondo più vasto e variegato degli iscritti, che provengono anche da altre storie ed altre formazioni ma che oggi hanno non solo la curiosità e la volontà di scoprire cosa ha da dire il Segretario del Pd, ma anche di partecipare alle discussioni, ai tavoli tematici, al confronto, portando il proprio significativo contributo, grande o piccolo che sia.
Per questo la Leopolda non è mai stata un evento del Pd ed è giusto che non lo sia neanche oggi che Renzi è il Segretario del partito ed il Premier di questo paese, perchè la capacità di mettere insieme forze e risorse umane diverse e di riunirle intorno ad un progetto, in maniera del tutto trasversale, esce dai confini del partito ed appartiene di diritto a quelli molto più ampi dell'azione politica che, se coerentemente condotta, si traduce in consenso e voti per chi la rappresenta. E certo, i Fassina ed i Cuperlo, cresciuti all'ombra dei capi e figli naturali della cooptazione, mai adusi a conquistarsi qualcosa, men che meno a considerare l'elettorato come un interlocutore molto più articolato e composito   del loro piccolo circolo esclusivo ed asfittico, non possono capire la Leopolda, al limite possono solo riconoscere in questo appuntamento ormai consolidato ciò che ha cambiato - per loro certamente in peggio - il corso della storia del Pd ma soprattutto della sinistra italiana, tirandola finalmente fuori da quelle secche obsolete e stantie che la stavano lentamente strangolando. 
Però, se anche non si riesce a comprendere qualcosa, non è necessario rendersi ridicoli a causa della propria insipienza, ma questo, a quanto pare, l'esilarante duo Fassina-Cuperlo ancora non lo ha capito. Continueranno dunque a farci ridere parecchio con le loro esternazioni, intanto che il mondo va in tutt'altra direzione e, perbacco, riesce a farlo persino senza il loro permesso.


ChiBo 

lunedì 13 ottobre 2014

Beppe Belushi e l'invasione delle cavallette

Bene, ci siamo definitivamente chiariti le idee a proposito di Grillo e del suo movimento, d'altronde l'adunata del Circo Massimo era stata convocata a questo scopo, doveva esprimere con chiarezza una linea politica ed anche un gruppo dirigente capace di attuarla. Il risultato ottenuto è stato l'opposto, e non solo per il favoleggiato milione di persone che doveva accorrere e chissà perchè non lo ha fatto, ma principalmente perchè sono stati saltati, e persino tolti dal programma annunciato, tutti i passaggi che dovevano servire a costruire una road map della maturazione politica dopo la fase adolescenziale della ribellione antipolitica. Ma anche le assenze, anzi spesso le assenze più che le presenze, aiutano a comprendere la natura di un fenomeno ed a leggerlo nella sua sostanziale precarietà.
Il fatto è che, dopo la pessima gestione del risultato ottenuto alle politiche, utilizzato solo per fare muro su tutto in drammatica quanto evidente mancanza di un vero programma politico e di una classe dirigente all'altezza del compito assegnatole, negli ultimi mesi Grillo pare aver sposato la stessa tattica di John Belushi nei Blues Brothers, ovvero spararla grossa, anzi grossissima, e sperare di essere creduto - con la fidanzata abbandonata del film funzionò, nella realtà le cose vanno diversamente, e l'invasione delle cavallette pare più probabile degli improbabili ed avventurosi passaggi istituzionali inventati là per là da un leader in affannosa ricerca di un obbiettivo raggiungibile.
A primavera, in piena campagna elettorale per le europee, il mantra era "vinciamo noi, andiamo da Napolitano e lo costringiamo a far cadere il governo e ad assegnare a noi l'incarico di farne uno nuovo", come se questo esercizio di fantapolitica fosse del tutto praticabile e, soprattutto, possibile, ma il Guru non guarda troppo per il sottile e conta sul fatto che chi è disposto a bersi ogni scempiaggine propagata dal suo blog non sia poi così ferrato sui passaggi istituzionali che regolano la vita della nostra democrazia parlamentare. D'altronde, la maggior parte dei suoi elettori ancora crede che in Italia il Premier venga eletto, vogliamo forse togliergli questa luminosa certezza?!
Sappiamo come è andata alle europee, dunque adesso Beppe Belushi rilancia con le cavallette sotto forma di ricostruzioni a posteriori dell'esito delle politiche - abbiamo vinto noi, quindi dobbiamo governare - mescolate ad un inutile in quanto non legale referendum sull'euro da stravincere, naturalmente, per farne l'arma con cui scardinare il Parlamento ed assumere finalmente la guida del paese. Inutile sottolineare la mancanza di ogni presupposto logico, prima ancora che istituzionale, di questo ragionamento, chi vive di invenzioni immaginifiche non si abbassa a fare i conti con la realtà, sebbene i suoi elettori dovrebbero pur obbligarsi a qualche sano e basico interrogativo sulla concreta possibilità di attuare simili strampalati programmi, ma non si può pretendere.
La verità è che oggi abbiamo sotto gli occhi la concreta evidenza di ciò che abbiamo sempre scritto sul movimento grillino, ovvero che non basta intercettare i voti dei malpancisti e degli scontenti se poi non dai alla protesta un ordine, un senso, un programma e degli esecutori in grado di trarne qualcosa di buono; se l'antipolitica non trova in sè la forza costruttiva della migliore politica, passando attraverso la dialettica, il confronto e l'azione incisiva finalizzata a risultati utili per il paese, è destinata a bruciare dello stesso fuoco che l'ha generata e che poi finisce con l'incenerirla nel proprio sostanziale velleitarismo.
Non è un caso che i sindaci, ovvero quelli che sono passati dal mondo fantastico dell'invenzione pura alla dura realtà delle necessità amministrative, siano stati messi da parte; Pizzarotti ignorato, Nogarin utilizzato come comparsa, mentre il dibattito fra amministratori che doveva aver luogo sul palco è stato annullato. Perchè discutere il passaggio fra immaginario e reale è cosa troppo complessa da affrontare, per un movimento ed un leader che non hanno strumenti per farlo e soprattutto non vogliono averne, preferendo procrastinare questa eterna fase eroica della ribellione a prescindere - non importa se raccontata in termini del tutto surreali - piuttosto che passare alla fase della costruzione faticosa ed impegnativa di un risultato, almeno uno, che si avvicini alle tante promesse urlate e mai mantenute fatte agli elettori in questi anni.
È difficile - se non addirittura impossibile - spiegare il voto contrario all'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, ad esempio, oppure l'astensione nella votazione sul taglio degli stipendi dei dipendenti della Camera, quando hai fatto una intera campagna elettorale contro i privilegi della Casta; quindi si sorvola, non se ne parla, si campa di colpi ad effetto, si sale sulla gru, si urla, si impedisce a chi chiede chiarezza di salire sul palco, e si trasforma un evento nazionale, presentato con alte ambizioni di natura politica, in uno spettacolino confuso e ripetitivo messo al servizio di uno solo, il padre padrone di un movimento che pure si proclama paradossalmente "con la base ma senza un leader".
E le parole d'ordine con cui si e chiuso il Circo, ovvero "basta dialogo" - come se fin qui ci fosse stato, poi - "chiudiamo con tutti", "niente tv", non sono altro che la mera certificazione di una inconcludenza che sta divorando se stessa, di un girare intorno al problema centrale - darsi finalmente una ossatura politica - che sta precipitando nell'avvitamento, di una barricata contro tutto e tutti che alla fine si rivela per ciò che è, un triste caso di autismo isolazionista che finisce col far male solo a chi lo pratica.
Per cui temiamo che, alla fine, Beppe Belushi le cavallette le vedrà davvero, quando i suoi elettori gli chiederanno conto della fiducia tradita - tranquilli, succede sempre, succede a tutti - e non basteranno neanche i nazisti dell'Ilinois con cui si è alleato in Europa ad aiutarlo. In fondo, sarà il giusto epilogo per chi ha fatto della decrescita felice il proprio obbiettivo e, del tutto coerentemente, bisogna riconoscerlo, lo sta realizzando in casa propria.

ChiBo

lunedì 6 ottobre 2014

Leopoldo Cuperlo, l'ultimo fake

Una crisi di identità capita a tutti, almeno una volta nella vita, specie quando il tuo mondo ti crolla addosso all'improvviso mentre sei ancora impegnato a costruirne la mitologia come se il futuro fosse solo una eterna ripetizione del passato, quindi bisogna essere molto comprensivi con il povero Gianni Cuperlo che, piovuto in mezzo a noi direttamente dalla narrativa mitteleuropea, come un personaggio in eterna ricerca di identità mentre tutto intorno a lui cambia e si evolve, si è infine auto-nominato Leopoldo, come uno sbiadito Granduca nato per regnare e finito invece per vagare eternamente in cerca di una corona che non c'è. Più.
Eppure, aveva tutte le carte giuste a suo favore. Quella bionda vaghezza da Principe Azzurro, così blasè, ed un poco imbalsamata, a dire il vero; l'erre blesa, a testimoniare una nobiltà naturale già nel linguaggio, per quanto poi poco o nulla incisiva, specie nella rudezza del dibattito politico; gli studi giusti, atti a collocarlo in quell'area indistinta fra la teoria ed il reale dove sguazzano ambiguamente e comodamente da decenni i nostri intellettuali, sollevati dall'onere di produrre qualcosa di sensato e, non sia mai, utile a questo paese. E poi la collocazione a sinistra, quella giusta a prescindere, riconoscibile dal vezzo aristocratico ed insieme snob del dichiararsi dalla parte degli ultimi senza mai averli incontrati, tenendosi al riparo dalla volgarità tra le mura amiche dei convegni tra simili, delle elette conventicole, delle auree fondazioni - chè la vita, perbacco, è prima di tutto un gesto di stile, una cifra espressiva, mica sporcarsi le mani con la cruda realtà.
E, fino ad un certo punto, la vita è stata tenera, con lui, proteggendolo da ogni confronto, evitandogli ogni contrasto, collocandolo in un ruolo secondario ma solido, ove coltivare operosamente una piccola gloria quotidiana di maître a penser per mancanza di prove, finchè l'improvviso irrompere del barbaro invasore fiorentino ha costretto la vecchia guardia a serrare le fila ed a scendere, per la prima volta e soprattutto per davvero, in battaglia, e che battaglia - la più dura e sanguinosa, quella della sopravvivenza.
Dunque, il Principe Azzurro è stato chiamato ad essere il campione altrui, di quelli che lanciano il sasso e nascondono la mano, ed anche di quelli che non sanno fare tesoro dei propri fallimenti ed organizzare, almeno, una uscita di scena dignitosa. Gli hanno offerto un ruolo bello e glorioso, vocato alla sconfitta fin dall'inizio, come si conviene all'ultimo epigono della Marcia di Radetzky, un ruolo da eroe letterario e post-romantico, mandato al sacrificio senza speranza alcuna di cavarsela ma con l'aura dorata del bello e giusto a coronargli la bionda chioma. Doveva vincere nei circoli, per sperare di frenare, almeno, l'ascesa del Rottamatore al sacro soglio della guida del Pd, e costringerlo a trattare con una parte ancora corposa e dotata di voti sufficienti a rendergli la vita impossibile all'interno del partito. E il bello è che ci credevano davvero, dicevano "vedrete le votazioni dei circoli, siamo avantissimo, le primarie non basteranno a Renzi per spazzarci via". Infatti.
Il Principe Azzurro ha perso là dove non era mai stato, ovvero tra i militanti che non erano pronti a comprenderlo nè a tradurre in termini popolari il suo eloquio alto e vacuo. Ha perso nel confronto con il reale, nell'approccio con la base, che forse è brutta sporca e cattiva, e non legge Proust, ma ha capito che al profumo delicato della madeleine che continua a parlare di passato è preferibile quello più corposo e convincente di chi osa progettare il futuro. Ma ha perso peggio, e nel peggiore dei modi, quando, investito comunque di un ruolo importante come la presidenza del partito, non lo ha compreso nella sua essenziale funzione di sintesi e lo ha confuso irreparabilmente con quel trono che alla sua nascita le fate madrine con i baffi avevano promesso affacciate alla sua culla.
Oggi, nella perdurante ed aggravata crisi di identità che lo affligge e da cui non è in grado di uscire, tanto da vedere la gloria del suo nome perpetuata da uno spassoso, acuto, sarcastico, devastante fake su Twitter che è più noto e certo più seguito di lui, non trova di meglio che riprendere sdegnate e precise distanze da quel popolo che non lo ha voluto come leader, facendo una sciocca e meschina ironia sull'evento che ha segnato l'inizio della fine del suo mondo, quella Leopolda che ha riaperto le porte della politica e della partecipazione ai cittadini e, così facendo, ha saldato un legame forte fra gli elettori ed il proprio leader, traducendolo alla prima occasione in voti veri, sonanti e pesanti, quelli che nel mondo irreale del Principe Azzurro e dei suoi cattivi consiglieri non si erano mai visti neanche con le manovre astute del Gatto con i Baffini.
Così, il povero eroe mancato di un impossibile ritorno al passato, ha chiuso il cerchio e si è battezzato Lepoldo. Ultimo Granduca di un regno che non c'è più. Per fortuna.

ChiBo