lunedì 10 ottobre 2016

Trump, l'effetto e la causa

Ormai, il dejavù impera. In qualunque competizione elettorale di qualche rilevanza nazionale o internazionale, assistiamo al ripetersi di un copione visto e rivisto mille volte da almeno un paio di decenni, che potrebbe riassumersi nell'altrettanto logoro ma purtroppo sempre valido esempio degli stolti che guardano al dito invece che alla luna.

Poco importa se il soggetto della discussione si chiami Berlusconi o Trump, quello che colpisce, e sconforta, e fa cadere le braccia, è il perpetuarsi di un meccanismo ostinato di rimozione del problema che preferisce vestirsi di anti-qualcuno invece che attivare analisi e risposte a favore di qualcosa. Specificamente, di soluzioni politiche efficaci e mirate, anche a costo di ripensamenti tanto dolorosi quanto necessari.

La campagna presidenziale americana, data la portata mondiale del suo esito, è solo il palcoscenico più vasto di una storia che ormai si ripete da tempo, e sembra costretta ad avvitarsi su se stessa, declinandosi in molte versioni che, di diverso, hanno solo il nome del candidato di turno elevato a pietra dello scandalo e ad oggetto del pubblico ludibrio, senza mai andare al cuore del problema.

Lo abbiamo visto bene in Italia, dove abbiamo vissuto vent'anni di antiberlusconismo sterile, isterico e giustizialista piuttosto che fermarci a chiedere quali colpe avesse la politica - tutta la politica, nessuno si senta escluso - nell'aver generato quel fenomeno. Berlusconi era l'effetto, non certo la causa, l'ultima decadente devianza di una politica chiusa in se stessa, del tutto autoreferenziale, completamente isolata, per propria arrogante volontà, dal rapporto con i cittadini, sprofondata nella palude del consociativismo spinto alle estreme conseguenze in modo che tutti fossero egualmente compromessi e quindi nessuno potesse legittimamente chiamarsene fuori.

Questa politica, del tutto priva di slancio, di coraggio, di progettualità, di idee e, non sia mai, di ideali al di fuori del rafforzamento e della conservazione di decennali rendite di posizione, fu presa di infilata da un demagogo affabulatore che ebbe l'unica felice intuizione nel presentarsi come l'uomo nuovo perchè nato fuori da quella stessa politica che in realtà lo aveva fatto nascere e prosperare. E gli isterismi di coloro che ne furono seppelliti, in termini di voti, e seppero reagire solo appellandosi a presunte e del tutto infondate superiorità morali da maestrini del rigore intellettuale, tentando di farlo fuori solo per vie giudiziarie e di pubblico discredito, non fecero che allungare la vita di una forza politica che in realtà aveva la stessa consistenza di un ologramma.

Abbiamo vissuto vent'anni di paralisi intorno a questo falso problema, quando quello vero era dato da due fondamentali tematiche: una sinistra vecchia, ancorata al passato ed incapace di darsi un afflato riformatore necessario ad affrontare le sfide del nuovo millennio; una destra moderna mai nata, incapace di uscire dallo stereotipo dell'uomo forte al comando, soprattutto del tutto priva di una intelaiatura culturale in grado di produrre contributi validi per il confronto politico.

Oggi, vediamo negli Stati Uniti il ripetersi dello stesso schema. Trump divide e suscita reazioni opposte, ma di pari intensità agonistica nell'odio o nella ammirazione con cui vengono formulate, ma di fatto anche lui è solo una conseguenza, e non certo la causa, di una situazione che si trascina da anni. La crisi profonda che attanaglia il partito repubblicano ormai da molto tempo è evidente e non da ora, la scelta di candidati del tutto inadeguati come Mac Cain e Romney, l'ascesa di personaggi duraturi come meteore, tipo la Palin o anche il presunto astro nascente ma mai cresciuto davvero Cruz, la deriva estremista dell'ala teocon saldata a quella dei teaparties, la sempre più pesante dipendenza da lobbies dominanti come quella dei fabbricanti di armi, hanno logorato e consumato dall'interno un partito che non sembra più in grado, se non in alcuni stati profondamente conservatori per non dire retrivi, di proporsi con credibilità alla guida della nazione.

Trump non ha fatto altro che approfittare di questa debolezza malata per salire sul palco, sapendo che non avrebbe avuto rivali. Ma la colpa non è sua che, anzi, ha fatto un calcolo preciso e pragmatico facendo tornare i propri conti. La colpa è di un partito talmente svuotato di contenuti politici, e sopratutto di capacità di progettazione e di visione strategica, da subire un candidato autoimposto, non avendo la forza intellettuale e culturale di produrne uno migliore, avendo completamente fallito nella ricerca e nella valorizzazione di risorse umane interne.

Che Trump sia nient'altro che un rozzo volgare cialtronissimo demagogo, è evidente. Che sia maestro nel dare il peggio in termini di razzismo, sessismo, populismo, anche. Ma che la ribalta gli sia stata offerta senza colpo ferire e senza opporre resistenza alcuna da un partito repubblicano ormai consunto e logoro è altrettanto chiaro. E se è vero che la Clinton non è la migliore dei competitors, è anche vero che il partito democratico in questi anni ha affrontato alla guida del paese la peggiore crisi economica mai vista, il terrorismo interno, la continua tensione razziale, mai sopita, persino i diritti civili, senza tirarsi indietro e senza fare leva sulla becera demagogia che pare l'unica risorsa rimasta invece ai repubblicani.

Dunque, anche qui la crisi non è data dalla malattia, ma dal sintomo che l'ha generata. E come accade in ogni democrazia, anche per quella americana la mancanza di una reale alternanza fondata su un efficace confronto politico è un danno, destinato solo a produrne altri. Passerà Trump, come passano gli uragani che esauriscono in breve tempo la loro portata distruttiva, ma resteranno, temiamo a lungo, tutti gli effetti devastanti prodotti dal suo cammino, finchè i repubblicani non saranno in grado di uscire dall'angolo dove si sono rinchiusi da soli, di lasciare fuori dalla porta gli estremismi, e di ricominciare a pensare in termini di strategia costruttiva per il bene comune. Che poi è ciò che chiede e che vuole la politica, quella vera.

ChiBo

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